Tu sei // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

Tu sei // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

 Simile a un clown, felice soprattutto a testa in giù,
piedi alle stelle, un cranio lunare,
le branchie come un pesce. Un sensato
pollice verso allo stile del dodo.
Avviluppato su di te come un rocchetto,
esploratore del tuo buio come i gufi.
Muto come una rapa dal quattro
di luglio al Primo Aprile,
oh pallina che cresci, mia pagnottella.

Vago come la nebbia e atteso come la posta.
Più lontano dell’Australia.
Atlante curvo, nostro gamberetto viaggiatore.
Rannicchiato come un bocciolo e a tuo agio
come uno spratto nel vasetto.
Nassa di anguille tutta fremiti.
Salterino come un fagiolo messicano.
Giusto come un’addizione ben fatta.
Foglio pulito, con su la tua faccia.

gennaio-febbraio 1960, Sylvia Plath

(traduzione di Anna Ravano)

Tu sei // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

Tu sei è manifesto poetico e insieme paradigma estetico, poesia che per la sua compiutezza, in un rincorrersi di similitudini, apre alla più grande metafora di un serrato e fitto colloquio con l’io, il sé profondo, l’essenza stessa dell’essere.

Tecnica sopraffina quella di Sylvia Plath che riesce sempre a dissimulare il nucleo centrale della sua messa in scena; in questo caso, lo stesso titolo Tu sei sembra fondarsi su un colloquio con un piccolo essere in gestazione (tutto il discorso lascerebbe pensare alla sua prima gravidanza), quando invece è un confronto con il sé.

Ma è proprio in questo mascherare l’oggetto e il soggetto che il testo poetico si trasforma in un organismo vivo, concreto perché utilizza i dati dell’esperienza, e fantastico perché rappresenta gli eventi in forma mitica.

Si tratta di una trasposizione e sovrapposizione di piani dialettici che apre le porte ad una terza via, la poesia dell’avvento: dell’assimilazione dell’essere a piani superiori di conoscenza, del sé in rapporto al mondo reale e a quello metafisico, e dell’ Altro che cerca l’ Oltre nell’ Altrove.

Tu sei postula la verità di un’anima vergine, integra e pura, la vitalità di una coscienza che cerca la sua forma per salvarsi da un mondo dove tutto è distorto, dalla realtà che stravolge e uccide.

È in questo schema definito e definitivo che va letta Tu sei, statuto poetico ed estetico, manifesto di un pensiero e di una profonda riflessione emotiva e morale, di una costante meditazione intellettuale e filosofica.

Dunque, Silvia Plath è di fronte al suo io che “simile a un clown” – emblematica figura che si muove con avvedutezza tra i paradossi – accende una riflessione su una mediazione di giudizio in cui i contrari si annullano.

Così, tra il suo stare sopra-sotto, nel suo contorcersi e srotolarsi il clown rifiuta ogni collocazione rigida e va liberamente, senza meta, armato di quel suo sorriso ironico, a volte folle, sorriso controcorrente che nega verità acclarate, per provare il contrario del solito, l’inaudito, per sondare l’opposto di ogni presunta normalità.

A proposito della perfezione o della ricerca di compiutezza suscitata dal clown, Jung scrive “Senza l’esperienza degli opposti non c’è l’esperienza di completezza”. L’eccentricità del clown lo rende ladro, bugiardo, burlone, ora altruista, generoso, filosofo: non ha un segno univoco e questo lo eleva alla saggezza del pazzo. Non sembra superfluo ricordare quanto afferma William Blake “Se il matto persistesse nella sua follia, andrebbe incontro alla saggezza”.

Archetipo di una non-forma, di un’assenza, il clown colma le distanze tra essere e non essere con il suo diletto, con le sue esagerazioni che denunciano la sproporzione degli opposti, la mancanza di forme di congiunzione e simmetria: bilanciare gli opposti sopra-sotto, avanti-dietro per generare una visione profondamente prospettica delle esperienze vissute e di quelle osservate.

È in questa prospettiva che Silvia Plath ragiona,  sapendo che Tu sei è il clown nella sua apparente follia, l’io stesso che uccide il vecchio sé per rinascere a nuova forma, in un continuo processo di individuazione e affermazione della propria identità.

Quanto poi alle movenze che il clown assume in tu sei, esse dicono di un suo risolversi a una dialettica che va oltre la finitezza del mondo umano: e lo vediamo “felice soprattutto a testa in giù, piedi alle stelle, un cranio lunare, le branchie come un pesce”. Figura ossimora che respira nell’elemento principe della vita, l’acqua, e che in esso riflette il suo triplice essere, il suo pensiero che si accende nella sottesa immagine della dea-luna, tra lo sconfinato spazio di astri, tra i quali si aggira, come a sondare altre atmosfere, altri mondi dove sentirsi libero e vivere.

Ed è una condizione di raggiunta superiorità e comprensione che si manifesta, in quella posa del “pollice verso”, come a mostrare la capacità di intendimento di una volontà straordinaria, una volontà altra che, nel “sensato” gesto, sceglie liberamente ciò che è giusto fare.

Il richiamo al “dodo” dice di un uccello estinto a causa dell’uomo, della sua indiscriminata furia ad appropriarsi di ogni spazio vitale, finendo per alterare l’equilibrio biologico. Contro questa irragionevolezza l’io-altro, il Tu sei fa un uso “sensato” e logico del “pollice verso”, presupponendo un incontro autentico con tutti gli esseri viventi.

Ancora l’ambivalenza del clown ritorna nell’insano uso delle scelte umane, nella disposizione verso una natura tradita, schiantata, precipitata nelle tenebre, dove il tu sei, per sopravvivere, deve imparare ad orientarsi nel “buio come i gufi”. Ricordiamo, a tal proposito, che il gufo annuncia il cambiamento attraverso la sua capacità di intuire e vedere oltre l’inganno. Simbolo di saggezza, il gufo è anche annunciatore della morte, morte intesa come passaggio oltre la vita: morte simbolo di un processo di transizione e cambiamento.

Si tratta di una raggiunta pienezza che consente alla coscienza di individuarsi ed essere, di porsi come il tu sei, come soggetto ormai in grado di liberare le sue energie vitali ravvolte come il filo di “un rocchetto”.

E le similitudini con il Tu sei si rincorrono, ora è “una rapa” che aspetta di maturare, ora è una “pagnottella” che lievita lentamente e che nell’attesa si fa “esploratore del tuo buio come gufi”, pioniere di una ricerca che s’inoltra tra le ombre notturne, nella foresta oscura della vita per carpire un riflesso, un suono, un segno d’assoluto.

Si tratta di un Tu sei ancora indefinibile, “vago come la nebbia”, sfuggente e sfumato, latore di un mistero che accende curiosità tanto che è “atteso come la posta”. Un tu sei, distante, quasi intangibile, “più lontano dell’Australia”.

Tu sei è un rincorrersi di similitudini decise e perentorie, scandite con andamenti ritmici roboanti: similitudini criptate anche se in apparenza semplici da interpretare.

Così, quell’ “Atlante curvo” non fa riferimento ad uno strumento geografico, ma si ricollega al gigante della mitologia greca che reggeva sulle spalle il mondo, lo stesso mondo acquatico in cui il Tu sei si addentra come un “gamberetto viaggiatore” che nella simbologia cristiana esprime la passione e la morte di Cristo. Ma c’è da aggiungere che il suo procedere all’indietro, il senso contrario, richiama ancora una volta l’ambivalenza del clown, un’ambivalenza che sottende un pensiero eretico, inteso come contestazione e liberazione.

Puro e vergine l’io-altro di tu sei, ripiegato e “rannicchiato come un bocciolo”, è simbolo di amore, di bellezza e castità, un io-altro che sa aspettare, e che, senza fretta, si sente a suo “agio come uno spratto nel vasetto”: un vasetto che ricorda tanto “la campana di vetro” in cui il mondo fa in modo che l’io si rifugi per difendersi.

E di nuovo la corrente contraria, l’ambivalenza del Tu sei che si agita perché vuole sfuggire alle finzioni del mondo, un mondo che getta le sue esche come una “nassa di anguille”. Tensioni dell’io-altro che vuole evitare la cattura e che si agita saltando “come un fagiolo messicano”, per evitare gli ostacoli e i tranelli della vita. Un io-altro perfetto “come un’addizione ben fatta” che aspetta di rappresentare il suo volto sul “foglio pulito” della storia.

Dipartimento di Lettere e Filosofia, prof. Ciro Sorrentino

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