Febbre a quarantuno // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

Febbre a quarantuno // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

Pura? Cosa vuol dire?
Le lingue dell’inferno
sono ottuse, ottuse come la tripla

lingua dell’ottuso, grasso Cerbero
che anela sulla porta. Incapace di
sanare leccandolo l’infiammato

tendine, il peccato, il peccato.
Sfrigola l’esca da fuoco.
L’indelebile puzza

di candela soffocata!
Si srotolano, o amore, i bassi fumi
da me come le sciarpe di Isadora, ho terrore

che una mi accalappi, mi ancori alla ruota.
Questi gialli tetri fumi
si creano il proprio elemento. Né si alzeranno,

ma intorno al globo si trascineranno
asfissiando i vecchi e i mansueti,
il gracile

bebè di serra nella sua mangiatoia,
l’orchidea mostruosa che appende
nell’aria il suo pensile giardino,

leopardo diabolico!
La radiazione l’ha ridotto bianco
e in un’ora l’ha ammazzato:

i corpi degli adulteri la sua peste rovina
li smangia come la cenere di Hiroshima.
Il peccato. Il peccato.

Amore mio, ho passato
tutta la notte annaspando,
fra lenzuola grevi come il bacio d’un perverso.

Tre giorni. Tre notti.
Limonata, brodo, acqua,
acqua, fammi vomitare.

Per te o chiunque sono troppo pura.
Il tuo corpo
mi offende come il mondo offende Dio. Io sono una lanterna—-

La mia testa una luna
Giapponese di carta, la mia pelle oro foglia
è carissima, molto delicata.

Non ti sbalordisce il mio calore.? E la mia luce?
sono un’immensa camelia
che s’infuoca e va e viene, vampa a vampa.

Penso che sto sollevandomi,
forse mi librerò—-
I grani di ardente metallo volano e io, amore, io

Sono una pura
vergine d’acetilene
con una scorta di rose,

di baci, di cherubini,
di tutto che esprimono queste rosee cose.
Non tu, né quello

non lui, né quello
(ogni mio io si perde, sgualdrinesco orpello)—-
al Paradiso.

20 ottobre 1962

Traduzione di Giovanni Giudici

Febbre a quarantuno // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

Immergersi nella lettura di Febbre a quarantuno implica una prima riflessione sullo stesso titolo che apparentemente fa riferimento ad un soggetto colpito da uno stato patologico e in preda ad un delirio.

Ma, pur volendo dar credito ad una condizione reale come la febbre, viene da chiedersi quanto siano immaginarie le visioni di Silvia Plath, se siano create ad arte oppure siano improvvise illuminazioni del pensiero che si traduce in poesia.

A nostro avviso si tratta di una situazione singolare generata da una Febbre a quarantuno, per la quale cadono i limiti di un gestire il tempo nello spazio del quotidiano sentire ed essere.

La Febbre a quarantuno rompe il muro del quotidiano, frantuma la barriera del silenzio, fa dire tutto quello che l’individuo prova e che non riesce a pronunciare nella pretenziosa convenzionalità della vita associata.

In Febbre a quarantuno Silvia Plath è in preda ad una febbre che la svincola momentaneamente dai legami con la realtà tutta ordinata dalle categorie spazio-tempo che nascondono la percezione dell’orrido spettacolo della vita.

Febbre a quarantuno è un compendio di esperienze e di conoscenze, memorie e presagi, intuizioni epifaniche sul fine dell’essere che si scopre impigliato nella trama della storia.

L’interrogativo che apre la poesia “Pura? Cosa vuol dire?”, È pronunciato in tono ironico, con la ferma intenzione di denunciare l’opacità, la colpevolezza, la disarticolazione di una realtà degradata nella quale l’esistenza si consuma nella mistificazione.

L’alterazione della realtà comporta una distorsione del pensiero, una contraffazione del linguaggio.

Pertanto, Silvia Plath può dire “Le lingue dell’inferno sono ottuse”, confuse, false, inadeguate a comunicare il senso delle cose, il sentimento stesso del soggetto.

Siamo all’individuo solo, perduto nel labirinto della storia che si risolve in una mostruosa Babele della realtà vissuta.

Paradossalmente l’eccessivo calore di una Febbre a quarantuno mostra le fiamme roventi su cui arde la vita, una vita in cui precipitano sentimenti e pensieri, traducendosi nelle insensatezze delle persone che parlano stupidamente attraverso “le lingue dell’inferno” parole incomprensibili del tutto “ottuse, ottuse come la tripla lingua dell’ottuso, grasso Cerbero che anela sulla porta”.

Il riferimento dantesco a Cerbero viene utilizzato da Silvia Plath per dire di un mondo che si ciba dei suoi figli, un mondo storico che pietrifica e raggela ogni speranza, un mondo popolato da esseri capaci solo di vivere il peccato.

L’esperienza della storia è mutezza e silenzio, dolore e sofferenza, impossibilità di percorrere i sentieri della conoscenza.

Si tratta di un mondo “incapace di sanare leccando l’infiammato tendine”: la vita impedisce di proseguire oltre, perché “l’infiammato tendine” fa accasciare l’essere, lo atterra, lo immiserisce uccidendone la verità dell’anima.

Proprio in questo tempo assente “Sfrigola l’esca da fuoco”, e l’io viene catturato e condannato al rogo: ciò che resta è solamente “L’indelebile puzza di candela soffocata”, il fumo di una vita che non conclude, perché frantumata, sbriciolata, annientata.

La Febbre a quarantuno pone Sylvia Plath di fronte al suo io e lo invoca con dolcezza, “si srotolano, o amore, i bassi fumi da me come le sciarpe di Isadora, ho terrore che una mi accalappi, mi ancori alla ruota”.

La sua raggiunta coscienza dell’essere le consente di riconoscere quanti pesanti angosciosi siano i suoi ricordi, “i bassi fumi”, quanto infime e minime le sue esperienze.

Si tratta di infingimenti imposti, condizionamenti mentali procurati dalla storia e lei teme che non possa disfarsene del tutto, che qualche triste maschera posticcia possa ancora trattenerla, come imprigionandola “alla ruota” della vita.

Sono infingimenti artificiosi, mostruosi manufatti che prendono il sopravvento, costituendosi come organismi a sé stante, in un “proprio elemento”.

Tetri fumi”, pesanti zavorre che non svaniranno, ruotando “intorno al globo”, come satelliti di un mondo-vita in agonia.

Infingimenti che proveranno a soffocare “i vecchi e i mansueti” ricordi, così come i giorni presenti che attendono l’arrivo del “gracile bebè di serra nella sua mangiatoia, l’orchidea mostruosa che appende nell’aria il suo pensile giardino”.

Metafora di grande effetto questa del “bebè di serra”, in essa c’è un sotteso richiamo alla nascita di Gesù (simbolo di un io vergine, integro e puro) che rimane sospeso, perché bloccato e rinchiuso, come se la verità, da lui misteriosamente incarnata, potesse trasformarsi in un’ “orchidea mostruosa”.

Ed è così che il povero io, il “leopardo diabolico”, viene azzerato, bloccato, annientato, la sua vivacità di colori viene colpita dalla “radiazione” del mondo umano.

La società delle maschere non accetta le fattezze e i comportamenti, “i corpi degli adulteri”, dei contestatori, di quelli che cercano e reclamano il vero.

Tutto quello che può ribaltare lo ‘status quo’ deve essere soppresso, negato, ridotto come “la cenere di Hiroshima”: ancora ritorna perentorio “Il peccato. Il peccato”, la mancanza di amore e di bontà, perché il mondo gira al contrario e l’arroganza, la malvagità dominano i comportamenti.

Questa raggiunta coscienza spinge ancora Sylvia Plath ad invocare con delicata accortezza il suo io, “Amore mio, ho passato tutta la notte annaspando, fra lenzuola grevi come il bacio d’un perverso”.

È evidente che nella “notte” della vita si senta in pericolo e vada dimenandosi, “annaspando” tra maschere simili a delle “lenzuola” che, invece di trasmettere dolce tepore, fanno rabbrividire inorridiscono tradendo l’essere come il bacio di un “perverso” Giuda.

I riferimenti al tradimento di Giuda sono evidenti, così come evidente è la morte del Cristo e la sua resurrezione in quei “Tre giorni. Tre notti”.

In un mondo meschinamente protervo, dove anche una “limonata” è un “brodo” riscaldato, una minestra insipida, Silvia Plath per ben due volte cita l’acqua, l’elemento primo che rigenera e inizia alla vita.

Acqua, acqua, fammi vomitare”, cioè espellere i veleni che ha dovuto ingoiare, l’ottusità del mondo.

Quel mondo troppo falso e che le fa dire “Per te o chiunque sono troppo pura”.

È la materialità, nel senso più negativo del termine, cioè la limitatezza del corpo che la “offende come il mondo” offende “Dio”.

E subito, come ad estraniarsi da tanta infima realtà, aggiunge “Io sono lanterna”, un’anima che si accende nell’oscurità per discernere la verità, oltre la luce di “una luna giapponese di carta”, perché di finto in lei non c’è nulla, la sua stessa carne è “pelle oro in foglia è carissima, molto delicata”. “Oro in foglia” come elemento raro e prezioso, come l’ossigeno prodotto dalle piante così necessario alla vita.

Silvia Plaht è consapevole di essere viva tanto che può dire “Non ti sbalordisce il mio calore? E la mia luce?”.

Siamo al ciclo vitale che si rinnova nel simbolo di “un’immensa camelia” che muore e rinasce continuamente, ricreandosi.

Questa chiarità di intendimento la fa sentire leggera, come un atomo di gas che si accende celebrando la sua integrità, come “vergine d’acetilene”, l’idrocarburo usato come combustibile per l’illuminazione.

Nella trasparenza di questa sostanza infiammabile porta “una scorta di rose, di baci, di cherubini”, l’amore totale per la vita.

Una vita che non si identifica in nulla di ciò che è visibile, perché la vita vera non è pietrificazione nella forma di un solo io – “non tu, né quello non lui, né quello” – le maschere cadono come “sgualdrinesco orpello” e lei può ricompattare i frantumi del sé e assurgere, nell’integrità dell’anima, al Paradiso.

Dipartimento di Lettere e Filosofia, prof. Ciro Sorrentino

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