Piccola fuga // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

Piccola fuga // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

Le dita nere del tasso si agitano;
in alto passano nuvole fredde.
Così i sordi e muti
fanno segni ai ciechi, e sono ignorati.

A me piacciono le affermazioni nere.
Lo scialbore di quella nuvola, invece!
Tutta bianca come un occhio!
L’occhio del pianista cieco

al mio tavolo sulla nave.
Cercava a tentoni nel piatto
con dita che avevano nasi di donnole.
Non riuscivo a smettere di guardare.

Sentiva Beethoven:
tasso nero, nuvola bianca,
le terrificanti complicazioni.
Trappole per le dita – un tumulto di tasti.

Vuoti e sciocchi come piatti,
così sorridono i ciechi.
Invidio i grandi rumori,
la siepe di tasso della Grossa Fuge.

La sordità è un’altra cosa.
Un imbuto così buio, padre mio!
Vedo la tua voce
nera e frondosa, come nella mia infanzia,

una siepe di tasso d’ordini,
gotica e barbarica, puro tedesco.
Ne escono grida di morti.
Io non ho colpa di nulla.

Il tasso mio Cristo, allora.
Non è altrettanto torturato?
E tu, durante la Grande Guerra
nella salumeria californiana

che mozzavi le salsicce!
Colorano il mio sonno,
rosse, chiazzate, come colli tagliati.
C’era un tale silenzio!

Grande silenzio di altro genere.
Avevo sette anni, non sapevo nulla.
Il mondo accadeva.
Tu avevi una gamba sola, e una mente prussiana.

Ora nuvole simili
stendono i loro vacui lenzuoli.
Non dici nulla?
Sono zoppa nella memoria.

Ricordo un occhio azzurro,
una cartella di mandarini.
Questo era un uomo, allora!
La morte si aprì, come un albero nero, neramente.

Io sopravvivo intanto,
ordinando la mia mattina.
Queste sono le mie dita, questo il mio bambino.
Le nuvole sono una veste nuziale, di quel pallore.

02.04.1962, Sylvia Plath

(traduzione di Giovanni Giudici)

Piccola fuga // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

Piccola fuga” si pone come uno dei più significativi testi poetici relativi al disagio esistenziale, morale e psicologico che sommerge l’ “io” nelle torbide acque di un illogico tempo storico. Ne deriva che una dubbia, quanto oscura, esperienza vieta di aderire all’ “Assoluto”, tanto che alla coscienza dell’essere non resta che riparare nell’estrema difesa dell’intelletto. In “Piccola fuga”, la sproporzione tra le ragioni private del soggetto e i limiti della vita diventa occasione di una verifica artistica utilizzata per rappresentare il dramma della persona travolta dai modi soffocanti di un mondo disarticolato e parcellizzato, un mondo che provoca smarrimento e alienazione. In effetti, Sylvia Plath analizza le conseguenze di un meccanismo equivoco, di una dialettica esistenziale che induce la ragione a cercare il solo possibile conforto della poesia.

In “Piccola fuga” scoperte improvvise e dolorose epifanie sono gli elementi intimi e dinamici che spingono a rifiutare l’apparente logicità dell’ “Esperienza”. Non è un caso che, nell’universo tragico di Sylvia Plath, l’essenza dell’ “io” si estranei in una dimensione “altra”, cercando una sostanziale condizione di genuinità e di purezza, ma, soprattutto, una possibile rinascita. È un fatto che, al totale disordine esistenziale, la coscienza profonda dell’essere si scopre viva e reagisce, insegue con una “Piccola fuga” un principio assoluto ed ineluttabile, uno scopo al suo agire. La necessità di trovare nuove e autentiche dimensioni spinge a mettere in discussione tutti gli “schermi” storici che riducono l’essere ad un manichino, ad una marionetta inanimata.

Sylvia Plath va alla ricerca dell’essenza autentica del suo essere oltre le finzioni di una grigia e incolore esistenza. E per questo si interroga continuamente, si risolve ad un incalzante monologo che la mette nella condizione di considerare i fatti da una diversa “inquadratura”, di scorgere modi alternativi per vivere e non subire la vita. Ed è proprio il suo modo di “scrutare” lo spazio e il tempo che le consente di dire “Le dita nere del tasso si agitano; in alto passano nuvole fredde”. Il “tasso” (espansione terrena di Dio) è il diretto interlocutore con il quale Sylvia Plath intraprende un dialogo che assume i tratti e i contorni esasperati della confessione e del dramma interiore. Ma a ben considerare, gli interlocutori sono tre: il primo è Dio riflesso nell’invocazione “Il tasso mio Cristo, allora”; il secondo è la coscienza dell’essere che può dire “Invidio i grandi rumori, la siepe di tasso della Grossa Fuge”; infine, la stessa Sylvia Plath che si rivolge ad entrambi e in essi si identifica.

Ma la grandezza di Sylvia Plath sta nella sua capacità di “estraniarsi”, nella sua coscienza di vedersi dal di fuori e di interloquire con l’ “Ente supremo”, con Dio che si moltiplica e si proietta nelle “dita nere del tasso. L’esordio della poesia, dunque, è rivolto proprio a Dio, colui che sa e tutto comprende, ed è un’immagine lapidaria fornita dalla successiva invocazione: “Il tasso mio Cristo, allora. Non è altrettanto  torturato?”. Al di là della scelta dell’interlocutore, a noi preme sottolineare l’equilibrio e l’estrema perfezione di un canto che, nel dramma di fondo, dice tutta la difficoltà di rapportarsi all’universo creato, quell’universo “respirato” da Dio e del quale Sylvia Plath se ne sente parte, perché ha coscienza che lei stessa è parte del “respiro divino”.

Ed è così che Dio, nella storia intima e privata, nella sfera degli affetti e dei sentimenti, nell’universo psicologico e morale, nel flusso magico che anima i versi, assume aspetto e forma di donna, – Dio è Sylvia Plath, è lei in persona ad incarnare l’ “Ente supremo”. Donna angelo, dunque, creatura divina che non vuole e non può subire l’inesorabilità di una realtà che ha perso la sua purezza, una purezza sacrificata dalle azioni umane che scorrono rapide ed insensate. Quanto poi al suo essere creatura terrena, Sylvia Plath cerca l’ “empatia” e il rapporto con Dio: la sua è estrema ed insistita ricerca di un segno rivelatore, di un cenno di “ascolto” e di comprensione.

Leggere “Piccola fuga” significa perdersi nelle sinuose correnti del sapere, aprirsi all’incanto della parola e saperne cogliere il significato prodigioso e surreale. Con Sylvia Plath siamo di fronte ad una delle più grandi voci della poesia universale, una voce senza tempo che vuole rendersi partecipe di ogni aspetto e forma del mondo creato da Dio e del quale solo lei sa coglierne le policrome e variopinte sfumature.

Ad ogni nuova lettura “Piccola fuga” fornisce ulteriori indizi di una filosofia e di una sofferta meditazione poetica. A tal proposito, vogliamo sottolineare il fatto che quattro incisi/versi/strofe hanno catturato la nostra attenzione e li abbiamo avvicinati, scoprendone la straordinaria consequenzialità e l’armoniosa coerenza. In prima analisi, sembrerebbero quattro versi necessari all’introduzione, allo sviluppo, alla conclusione, ma se li estrapoliamo dal contesto e li analizziamo ‘a freddo’ ci si rende conto che sono ‘autosufficienti’, ‘indipendenti’, ‘autonomi’, in definitiva, sono quattro autentiche poesie che ricordano lo stile della scuola ermetica, in particolare di Ungaretti (vuoi anche per una profonda, sottesa e velata religiosità).

Di seguito i ‘segmenti/ritagli’, o meglio i canti che si dispongono come quattro punti cardinali per orientarsi e trovare l’ “Assoluto” nell’immenso ed eterno scacchiere dell’universo.

Nel primo spazio poetico Sylvia Plath sembra stia sporgendosi per scrutare l’orizzonte illuminato dal suo faro:

Le dita nere del tasso si agitano; in alto passano nuvole fredde. Vedo la tua voce nera e frondosa, come nella mia infanzia…

Abbiamo un soggetto, Sylvia Plath, che possiede la capacità di poter innalzarsi al di sopra del livello del mare (si noti questa possibilità di sollevarsi oltre la linea dell’orizzonte visibile) e di guardare ‘lontano’, laddove la vista degli uomini non può giungere, perché non adatta allo scopo, e che mai, né intellettualmente, né emotivamente, sarebbe pronta a poterlo fare. La veggenza – la “Piccola fuga” – di Sylvia Plath esplode nel probabile ‘faro’, come attraversando un cielo a tratti illuminato da un fascio di luce che si allunga a rischiarare l’oscuro orizzonte. ‘Faro’ come bagaglio culturale e religioso del quale Sylvia Plath si serve per gestire e orientare le sue scelte e le sue azioni, quello che è la sua chiaroveggenza del futuro.

Nel secondo spazio poetico Sylvia Plath ripercorre la storia, il suo è un viaggio – una “Piccola fuga”  – tra passato e presente: è come se fosse trascinata da un ‘esplosivo’ silenzio che è densamente spinto da un’oscura forza centripeta:

Io non ho colpa di nulla. C’era un tale silenzio! Avevo sette anni, non sapevo nulla. Il mondo accadeva”.

Potente e visibile quest’onda di ricordi è un flusso di energia che si leva dalle zone recondite e misteriose dell’essere stravolto da un presente permeato da un disordine che ‘saetta’ sulla coscienza indifesa dell’essere. Eppure quel “silenzio” è solo una memoria sfumata e rarefatta, quello che rimane è un fragore d’onda che schizza il ‘faro’ e la sua luce, come a voler oscurare la vista. Potremmo ipotizzare che le onde e le spume siano un ulteriore ostacolo alla possibilità di leggere il tempo della storia personale e privata, ma anche della storia collettiva.

Nel terzo spazio poetico Sylvia Plath sembra essere sospesa, come se il respiro stesse diventando affannoso:

Sono zoppa nella memoria. Ricordo un occhio azzurro… Questo era un uomo, allora! La morte si aprì, come un albero nero, neramente”.

La coscienza di Sylvia Plath si ritrova nel ‘silenzio di cosa’, di pirandelliana memoria (“Serafino Gubbio operatore”), la scoperta disarticolazione della Storia fa convergere la sua meditazione – la sua “Piccola fuga” – sul suo mondo interiore e sulle priorità che sembrano sogni perduti. Ma proprio in questo dolente ritrovarsi a dialogare con il mondo sotterraneo che la agita e mette a soqquadro la realtà tutta apparente delle vicende umane, emancipa Sylvia Plath a poter riconoscersi e ad individuarsi come persona che può e sente di dover prestare ascolto all’unica forma autentica nella quale ci si può riconoscere: le “Le dita nere del tasso” che “si agitano”. Anche il respiro del suo cuore si agita e cerca l’afflato e la magia della comunicazione spirituale.

Nel quarto spazio poetico Sylvia Plath, dopo aver denunciato lo smarrimento, dopo aver superato, con la “Piccola fuga”, le barriere del non senso e aver compreso lo scopo e il fine dell’ossimoro ‘vita-morte’, dopo essere pervenuta alla consapevolezza che solo la ricerca dell’ “Assoluto” assume la valenza autentica e significativa della vita, giunge infine a declamare:

Io sopravvivo intanto, ordinando la mia mattina. Queste sono le mie dita, questo il mio bambino. Le nuvole sono una veste nuziale, di quel pallore”.

È questa una dichiarazione d’amore verso l’eterno, una proiezione nell’infinito, laddove nessuna terrena sovrapposizione può interferire con la ‘congiuntura’ temporale, con l’incontro di due mondi (‘vita-morte’) nei quali l’attimo acquisisce i tratti sostanziali di una dimensione dove le categorie spazio-tempo sono annullate da un superiore, misterioso e dinamico fluire dell’ “Assoluto”.

Dipartimento di Lettere e Filosofia, prof. Ciro Sorrentino

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