Paralitico // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

Paralitico

Succede. Continuerà? –
La mia mente è una rupe,
non ho dita per aggrapparmi, né lingua,
il polmone d’acciaio è il mio dio

che mi vuole bene, pompa
e ripompa i miei
due sacchi di polvere,
non

mi consente ricadute
mentre fuori il giorno scorre come un nastro telegrafico.
La notte reca viole,
arazzi d’occhi,

luci,
smorzate anonime
voci: «Tutto bene?»
l’inamidato seno inaccessibile.

Morto uovo, io
giaccio intero
in un intero mondo che non posso toccare,
al bianco, teso

tamburo del mio giaciglio
fotografi vengono a trovarmi –
mia moglie, morta e piatta, in pellicce da anni ‘20,
bocca piena di perle,

due ragazze
piatte come lei, che sussurrano: «Siamo tue figlie.»
Le immobili acque
mi avvolgono labbra,

occhi, naso e orecchi,
lucente
cellofan che non posso lacerare.
Sui miei nudi lombi

sorrido come un buddha e ogni
voglia, desiderio
cadono da me come anelli
serranti le loro luci.

Gli artigli
della magnolia,
ebbri dei loro propri profumi,
nulla chiedono della vita.

29 gennaio 1963, Sylvia Plath

(traduzione di Giovanni Giudici

 PARALITICO // SYLVIA PLATH IN “LA SCOPERTA DEL DOPPIO E IL VIAGGIO DI PIERROT” – PROF. CIRO SORRENTINO

In “Paralitico” Sylvia Plath esplora una condizione di sospensione e stasi, che impedisce all’io di agire sia sul piano fisico che emotivo. La persona allettata vorrebbe afferrare qualcosa, riuscire a comunicare, ma il suo io è intrappolato in un corpo immobile. La malattia e la sofferenza isolano il “paralitico”, creando una barriera tra il sé interiore e il mondo esterno.

L’incipit iniziale, “Succede. Continuerà?”, riflette l’incertezza e il timore che il “paralitico” avverte riguardo al suo essere immobile come “una rupe”, un corpo pietrificato non più in grado di muoversi, di agire o comunicare. La sua “lingua” non  può articolare suoni e parole, le “dita” contratte non possono afferrare nulla. Il “paralitico” sa che ormai dipende da un “polmone d’acciaio” che lo tiene in vita, mentre “fuori dalla stanza, il giorno scorre come un nastro telegrafico”, nella quotidianità degli altri che, invece, sono liberi di compiere gesti e azioni, dire e fare.

Il tempo dell’esperienza rimane distante e inaccessibile per il “paralitico”, il misero ‘escluso’ che avverte il dramma di non riuscire a interagire con la quotidianità del “giorno” e con la suggestiva magia della “notte” in cui si raccolgono immagini di bellezza e mistero come le “viole, arazzi d’occhi, luci…”.

Quella del “paralitico” è una dolorosa riflessione su un tempo dell’esperienza che non concede alcuna possibilità di movimento o di partecipazione attiva al mondo circostante. Di fronte a tanto dolore, la reazione del “paralitico” si approfondisce nell’amara coscienza di vedersi come un “morto uovo”, come un essere senza alternative, costretto a restare disteso in un tempo dell’esperienza che non può essere suo.

Ai suoi occhi, le stesse immagini della moglie e delle due figlie si trasformano in icone di un mondo irraggiungibile e distante: “mia moglie, morta e piatta, in pellicce da anni ‘20, bocca piena di perle, due ragazze piatte come lei, che sussurrano: «Siamo tue figlie». L’apparizione della moglie e delle figlie, che potrebbero essere fonte di conforto o di amore, accende solo un doloroso ricordo del passato e accentua ulteriormente l’alienazione. La moglie indossa pellicce “da anni ‘20”, un simbolo del passato e del lusso, mentre le figlie sembrano spersonalizzate e perse in una gelida e indifferente estraneità.

La condizione di blocco del “paralitico” è maggiormente evidenziata dalla descrizione delle “immobili acque” che lo circondano, simbolo della stagnazione e dell’immobilità cui è condannato, e dalla manifesta e necessaria prigionia di quel “lucente cellofan” che lo tiene in vita. La disperata amarezza del “paralitico” si amplifica di fronte a quel “lucente cellophane”, impossibile da “lacerare” e che rappresenta il muro insuperabile, la separazione dal mondo esterno. Lo stato di inerzia si trasforma in dolente comprensione di una realtà sospesa e mortificante dalla quale non si può fuggire, di una stasi che avvolge e imprigiona nel vorticoso nulla della sopravvivenza, una sopravvivenza tanto simile a quella di un vegetale.

E, tuttavia, nonostante il senso di isolamento e dipendenza, il “paralitico” sorride “come un buddha” sul suo giaciglio, raccogliendo in sé gli ultimi sogni e intendimenti. Sul piano generale, l’immobilità del “paralitico” si configura come una metafora delle limitazioni e delle restrizioni che ogni individuo può sperimentare nel corso della propria vita.

La solitudine e l’alienazione, derivanti dalla malattia e dalla conseguente sofferenza patita dal “paralitico”, mettono in discussione il concetto stesso di vitalità e di cosa significhi essere pienamente vivi. Non è un caso che il “paralitico”  si trovi in una condizione paradossale per la quale la bellezza della vita, rappresentata dal giorno che apre alla suggestione della notte, gli viene negata.

La riflessione del “paralitico” si focalizza, infine, sull’immagine degli “artigli della magnolia…” che “nulla chiedono della vita” e nulla chiederanno mai, perché sono inebriati ed “ebbri dei loro propri profumi”, serenamente lontani dal subire il tempo di una non-vita che tutto avvolge nel suo vorticoso e caotico fluire.

Dipartimento di Lettere e Filosofia, prof. Ciro Sorrentino

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