L’impiccato // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

L’IMPICCATO // SYLVIA PLATH IN “LA SCOPERTA DEL DOPPIO E IL VIAGGIO DI PIERROT” – PROF. CIRO SORRENTINO

L’impiccato

Per le radici dei capelli
mi afferrò qualche dio.
Ai suoi azzurri volt
mi rattrappii
come un profeta del deserto.

Le notti sgusciarono via
come palpebre di lucertola:
un mondo
di vani giorni bianchi
in una buca senz’ombra.

Una noia d’avvoltoio
mi appuntava
a quest’albero.
Farebbe anche lui come me,
se lui fossi io.

27.06.1960, Sylvia Plath

(traduzione di Giovanni Giudici)

L’IMPICCATO // SYLVIA PLATH IN “LA SCOPERTA DEL DOPPIO E IL VIAGGIO DI PIERROT” – PROF. CIRO SORRENTINO

Chi è “L’impiccato” viene spontaneo chiedersi leggendo il titolo, così com’è naturale chiedersi chi ha decretato l’esecuzione. Di sicuro “L’impiccato” è l’io profondo, lo spirito dell’essere, l’energia che si assimila al corpo, vivendolo nel profondo, a partire dalle “radici dei capelli”.

Per definire il mandante di tale esecuzione, lo individuiamo in “un mondo di vani giorni bianchi”, in una realtà sociale opaca e parcellizzata, in un tempo storico che stordisce, intorpidisce e condanna a morte chi cerca una totalità di intenti e una logica nel susseguirsi degli eventi.

Di certo, Sylvia Plath, mentre vede aprirsi la voragine del vuoto che tutto inghiotte, sente che qualcuno o qualcosa la salva dal niente esistenziale. Si tratta dell’energia che appartiene al cielo e al mare, a quegli “azzurri volt” così misteriosi e tanto magnificamente riconducibili alle forze della natura, forze simbolo di una perfezione che in sé reca gli indiscutibili segni della perfezione spirituale.

E, di fronte a questa manifestazione di sovrumana potenza, “L’impiccato”, l’io sociale di Sylvia Plath si irrigidisce come sospeso tra due mondi, nel silenzio di un “deserto”, in attesa di scorgere un indizio, un segno per comprendere la realtà e presentire il futuro.

Il mondo è, dunque, uno spazio arso e bruciato, zolla brulla, oscurità delle “notti” che si espande in un tempo “di vani giorni bianchi in una buca senz’ombra”. D’altra parte, non potrebbe esserci nessuna “ombra”, considerando che “L’impiccato” è morto, svuotato della coscienza dell’essere e di ogni energia fisica che gli garantiva una consistenza materiale. In effetti, senza il pensiero e la spiritualità dell’anima, un corpo non è altro che un involucro di carne destinato ad una rapido disfacimento e dissoluzione.

Ed è così che, mentre “L’impiccato” è soggiogato dal corso della storia, il suo io segreto e privato, la sua individualità spirituale riesce a librarsi in  volo e può guardare quel corpo cui lei stessa aveva dato un divino respiro.

A prima vista, questa tremenda percezione del tempo storico potrebbe sembrare una totale sconfitta dell’essere, se non fosse che “L’impiccato”, proprio perché privo della sua anima, si offre come vittima sacrificale e oggetto di riflessione sul ciclo di vita-morte-rinascita.

Questa verità assoluta, che nasce da un apparente paradosso, scopre come l’esistenza umana sia vissuta in una sospensione di senso e di significato, nell’incoscienza dilagante e generalizzata. A tanto squallore fa da controcanto “L’impiccato”, l’immagine epifanica di chi si salva nell’inflessibile e austera regolatezza dell’ “albero”, il vero emblema del ciclo continuo di vita-morte-rinascita.

Quanto poi all’avvoltoio, che attende tra i rami, è evidente il richiamo al processo di mutamento e di trasmutazione della materia. Non è un caso che Sylvia Plath abbia scelto il simbolo dell’avvoltoio che metaforicamente rappresenta l’energia del sole, l’amore filiale e il concetto di nascita.

È un fatto che gli stessi alchimisti rappresentavano l’avvoltoio in paziente attesa, con un cartiglio recante la scritta – “Io sono nero di bianco, e rosso di bianco, e giallo di rosso, e certamente dico la verità, e non mento” (Rosarium philosophorum, XIV secolo)”. Una paziente attesa che, stando agli Egizi, assicurava l’eterno ciclo di vita-morte-rinascita proprio in virtù della capacità dell’avvoltoio di trasformare in altra e nuova vita il morto corpo di cui si nutre.

Dipartimento di Lettere e Filosofia, prof. Ciro Sorrentino

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