I manichini di Monaco // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

I manichini di Monaco // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

I manichini di Monaco

La perfezione è terribile, non può avere figli.
Fredda come respiro di neve, occlude il grembo

dove arbusti di tasso spuntano come idre,
l’albero della vita e l’albero della vita

scioglienti le loro lune, mese per mese, invano.
Flusso di sangue è flusso

d’amore, sacrificio assoluto.
Vuol dire: non altri idoli che me,

me e te.
Così, sulfureamente amabili, nei loro sorrisi

questi manichini s’affacciano stanotte
a Monaco, obitorio che sta fra Roma e Parigi,

nudi e spogli nelle loro pellicce,
lecca-lecca all’arancio su stecchi d’argento,

insopportabili, senza sentimento.
Sgocciola giù la neve i suoi frammenti di buio,

non c’è nessuno. Negli alberghi
mani apriranno porte, deporranno

scarpe da lucidare in cui domani
enormi diti di piedi entreranno.

Oh quale aria di casa queste vetrine,
biancheria da neonati, dolciumi guarniti di verde,

i grevi tedeschi assopiti nel loro Stolz senza fondo.
e i neri telefoni ai ganci

luccicanti
luccicanti e inghiottenti

insistenti voci. Non ha voce la neve.

28 gennaio 1963, Sylvia Plath

(traduzione di Giovanni Giudici)

I manichini di Monaco // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

Ne “I manichini di Monaco” Sylvia Plath riprende il discorso sul concetto di “perfezione” già espresso nella poesia “Anni”, laddove l’idea di “perfezione” viene assimilata all’ “Eternità” della “grande Stasi” che, a sua volta, corrisponde all’assenza di ‘movimento’ in un “nero di vuoto”.

Ma, se in “Anni”, la riflessione sulla “perfezione” è rivolta all’aspetto metafisico, ne “I manichini di Monaco” è diretta al piano della realtà, all’immobile e statica inerzia degli oggetti e degli individui, così assemblati, plasmati, distillati in modo ineccepibile, definito, preciso.

E, siffatta compiutezza, da qualunque prospettiva sia considerata, provoca angoscia e inquietudine, frustrazione e smarrimento. Ne “I manichini di Monaco” la “perfezione” assume la freddezza della pietra inanimata, è gelida come una statua, è agghiacciante tormento che, nella ‘mostruosità del già compiuto’, nega ogni movimento e sviluppo, la stessa possibilità di agire per modificare, trasformare, moltiplicare.

Questo tipo di “perfezione”, ne “I manichini di Monaco”, si costituisce come dogma, non lascia spazio al pensiero e all’esperienza, non ammette confutazioni di teorie, né eccezioni, si fonda esclusivamente su postulati e assiomi di verità assolute. E contro la negazione di ogni ragionamento, Sylvia Plath leva il suo grido – “La perfezione è terribile, non può avere figli”, non può generare processi di conoscenza, movimento e vita dell’essere. Esistendo ‘a priori’, come entità ‘autotrofa’, si nutre di se stessa ed esula dal ciclo naturale di vita-morte-rinascita.

Tale asetticità rende la perfezione “Fredda come respiro di neve”, e, dunque, imperturbabile, distaccata, spietata. Si tratta di una ‘distanza’ che strozza, chiude, ostruisce “il grembo” materno, in una sorta di autodeterminazione che non le consente di “avere figli”, di generare altra scienza e conoscenza.

Contro questa ‘chiusura’, che è simbolo di morte della “grande Stasi”, si rappresenta ne “I manichini di Monaco”, in “arbusti di tasso” che “spuntano come idre”. L’immagine è suggestiva, perché l’albero del tasso è simbolo doppio di morte e rinascita, ma Sylvia Plath lo osserva, in questa occasione, come emblema del positivo, prova ne sia che per ben due volte lo dichiara nello stesso verso, “l’albero della vita e l’albero della vita”.

E contro questa energia positiva, le “idre”, che si affacciano di notte, invocando la faccia oscura della “luna”, non possono sferrare nessun colpo mortale. Di fronte alla pienezza dei sentimenti e dei pensieri, le “idre” arretrano, perché un “Flusso di sangue è flusso d’amore, sacrificio assoluto”, energia vitale in movimento, idealità in divenire, trasmutazione.

Si tratta di un “flusso d’amore” che spinge il suo corpo e la sua anima, che la rende viva e cosciente, consapevole del fatto che si può amare per davvero solamente se stessi. Al riguardo dichiarativo è il verso – “Vuol dire: non altri idoli che me, me e te”.

A questo amore vero, che è rosso vivo come il sangue, fa da controcanto il colore giallo-rossastro dello zolfo in combustione che ricorda la luce del crepuscolo, le ombre della notte. “Così, sulfureamente amabili, nei loro sorrisi” di gesso, assenti e sempre uguali, “I manichini di Monaco” riempiono il vuoto con la loro nera compiutezza. E restano nel loro silenzio di morte, privi di ogni “flusso d’amore”, grevi e irrigiditi come salme nell’ “obitorio che sta fra Roma e Parigi”.

La “perfezione” propria de “I manichini di Monaco” è ripugnante, tutta compresa nei versi “nudi e spogli nelle loro pellicce, lecca-lecca all’arancio su stecchi d’argento, insopportabili, senza sentimento”.

A conferma di questa mostruosa oscenità, che appartiene a “I manichini di Monaco”, citiamo le parole dello stesso Giorgio de Chirico (la cui opera ha ispirato Sylvia Plath nella creazione di questa poesia) che nel 1942 scrisse: «Il manichino è un oggetto che possiede a un dipresso l’aspetto dell’uomo, ma senza il lato movimento e vita; il manichino è profondamente non vivo e questa sua mancanza di vita ci respinge e ce lo rende odioso. Il suo aspetto umano e nello stesso tempo mostruoso ci fa paura e ci irrita. Quando un uomo sensibile guarda un manichino egli dovrebbe essere preso dal desiderio frenetico di compiere grandi azioni, di provare agli altri ed a se stesso di che cosa è capace e di dimostrare chiaramente ed una volta per sempre che il manichino è una calunnia dell’uomo e che noi, dopo tutto, non siamo una cosa tanto insignificante che un oggetto qualunque possa assomigliarci».

Il gelo de “I manichini di Monaco” si espande mostruosamente in assenza di vita, mentre viene “giù la neve i suoi frammenti di buio, non c’è nessuno” nei dintorni, nessuno che provi emozioni e viva nella pienezza dell’essere.

In tanti dormono “Negli alberghi”, la strada, punto di osservazione di Sylvia Plath, è deserta, solo “vetrine” illuminate e insopportabili “tedeschi”, con la loro aria di superuomini. Ma la vera immagine apocalittica è quella dei “neri telefoni” che resteranno appesi ai loro “ganci” senza che nessuno chiami o risponda: le vie, infatti, sono un deserto di voci e, tantomeno, la “neve” potrebbe interloquire al telefono, perché “non ha voce”, non parla. Resta solo un gelido e inanimato, dilagante silenzio.

Dipartimento di Lettere e Filosofia, prof. Ciro Sorrentino

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