Anni // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

Anni // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

Anni

Entrano come animali dall’esteriore spazio
dell’agrifoglio dove le punte
non sono i pensieri cui volgo, come un Yogi,
ma verdezza, buiezza, talmente pure si congelano e sono.

Oh Dio, io non sono come te
nel tuo nero di vuoto,
tutto inzeppato di stelle, lucenti stolti confetti.
L’eternità mi annoia, mai l’ho desiderata.

Quel che mi piace
è lo stantuffo in movimento –
L’anima mia ne muore.
E gli zoccoli dei cavalli, il loro spietato fermento.

E tu, grande Stasi – Cosa è in ciò di così grande!
È una tigre, quest’anno, questo ruggito alla porta?
È un Cristo, il tremendo boccone
in essa di Dio che muore dalla voglia di volare e finirla?

Sono se stesse le bacche rosso sangue,  
impassibili.
Gli zoccoli non lo acchiapperanno,
sbuffano gli stantuffi nell’azzurra distanza.

16 novembre 1962, Sylvia Plath

(traduzione di Giovanni Giudici)

ANNI // SYLVIA PLATH IN “LA SCOPERTA DEL DOPPIO E IL VIAGGIO DI PIERROT” – PROF. CIRO SORRENTINO

La poesia “Anni” è manifesto poetico e presa d’atto della disarticolazione della realtà, una realtà che si risolve in un ossimoro, nell’altalenante succedersi di stagioni, durate e cicli, in un tempo misurabile che ordinatamente contrassegna il principio e la fine degli eventi.

La prima strofa si scioglie in versi che fissano l’attenzione proprio sul normale sul fluire del tempo, avvicendarsi di giorni e notti che marcano i limiti dell’essere e della creatura umana, indefinita e mortale rispetto all’unicità dell’anima.

Scorrono gli “Anni” con inevitabile e costante puntualità, “entrano come animali dall’esteriore spazio dell’agrifoglio”, superano come spiriti maliziosi e scaltri perfino la prodigiosa e fideistica protezione degli agrifogli.

L’inizio e la fine degli “Anni” rappresentano un vincolo inesorabile che, con le sue “punte” (il termine si riferisce agli opposti vita-morte) definisce un cambiamento, un trapasso e, comunque, una trasmutazione in qualcos’altro. Sono “Anni” che investono i ricordi, l’esperienza e ogni emozione, persino la meditazione “cui volgo, come un yogi” ne è travolta.

Siffatta torsione sembra quasi negare la possibilità di pensare. E diciamo ‘sembra’ perché, se l’inizio e la fine degli “Anni” si materializzano in “verdezza, buiezza, talmente pure si congelano e sono”, è proprio il pensiero che si attualizza e osserva la circolare reiterazione del tempo che, in quanto ciclicità, rimanda all’idea di vita, morte e rinascita.

Quantunque l’esordio dei versi lasci trasparire un senso di malinconia, sopravviene la coscienza che “verdezza” e “buiezza” sono gli indispensabili contrari che assicurano il processo di vita-morte-rinascita: senza questi due opposti non potrebbe attualizzarsi l’opzione salvifica che è la resurrezione.

Si tratta di un processo ‘in fieri’, non ancora compiuto e in via di compimento, attualizzazione dell’esperienza come ricerca della perfezione che è in continua evoluzione, finalità e scopo da rimodulare sempre, perché l’ente assoluto non presuppone nessuna espansione, è già il tutto e il nulla. È in questa volontà di espandersi che Sylvia Plath riconosce la possibilità di guardarsi allo specchio e riconoscersi, è nel suo continuo cadere e rialzarsi che intravede Dio, la somma di tutti gli eventi.

È chiaro che l’esclamazione “Oh Dio” non è da intendersi rivolta al vero Creatore, di cui gli esseri viventi sono pura emanazione e testimonianza, ma alla falsa effige di un Dio immaginato dagli uomini come Essere Superiore che ha riempito il “nero di vuoto” con corpi celesti, che in fondo sono solamente “lucenti stolti confetti”, illusioni che forniscono una falsa idea del tutto-nulla, di quella che dovrebbe essere una visione totale e onnicomprensiva dell’infinito, alla quale pervenire attraverso un’esperienza vissuta e partecipata.

Sylvia Plath ha piena coscienza del tutto-nulla, sa che il pensiero autentico si scioglie nel sentimento dell’esperienza e può dire “L’eternità mi annoia, mai l’ho desiderata”. Si tratta di un’eternità fine a se stessa, che non prevede sviluppo. E tale sterile e spuria eternità, che non possiede il senso e il sentimento dell’essere nel tempo, lei rifiuta esplicitamente.

Ecco spiegata la sua invettiva verso la contraffatta idea dell’ “eternità”, che si rappresenta nell’assenza di movimento di una sconcertante “Stasi”. L’immobile sospensione della “Stasi”, che si esalta e si veste “di così grande” potenza, è quel “nero di vuoto” in cui precipita ogni ‘processo di vita-morte-rinascita’, è la vera morte, quella definitiva che non prevede né un nuovo inizio, né altra resurrezione.

Ne deriva che Sylvia Plath celebra il “movimento”, lo spostamento, il viaggio che fa gioire la sua “anima”. Si avverte un’aspirazione al primitivo essere nel tempo, il desiderio di ascoltare semplicemente “gli zoccoli dei cavalli, il loro spietato fermento”. Quello che cerca è l’idealità del divenire, la profonda tensione verso uno stato di primitività che, in una nuova condizione di genuinità e di purezza, possa garantire una sicura rinascita.

L’esperienza del tempo, in quanto storia sofferta nell’inquietudine esistenziale, è l’unica soluzione che rende possibile il viaggio verso l’Altrove, oltre la “grande Stasi”. Ne consegue che quel “ruggito alla porta” annuncia il calvario di “Cristo”, che nell’esperienza del dolore avrà chiaro il disegno di Dio. Solo provando la “voglia di volare e finirla”, con gli artifizi della realtà umana, si potrà essere liberi di spingersi “nell’azzurra distanza” dell’infinito.

Dipartimento di Lettere e Filosofia, prof. Ciro Sorrentino

Materiale protetto da Copyright (c) – Tutti i diritti riservati. Vietata la copia anche parziale.

https://plathsylvia.altervista.org/

https://www.letteratour.it/analisi/A02_plathSylvia_ariel.asp

https://plathsylviaariel.altervista.org/

https://sylviaplath.altervista.org/

https://eburnea.altervista.org/

https://sylviaplathariel.altervista.org/