Lettera in novembre // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

Lettera in novembre // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

Lettera in novembre

Amore, il mondo
d’un tratto volge, muta colore.
La luce del lampione
alle nove di mattina
si frange
oltre ai baccelli coda-di-topo del laburno.
È l’Artico,

questo piccolo cerchio nero,
con le sue erbe
di seta fulve –
capelli di neonato.
C’è un verde nell’aria,
tenero, delizioso.
Mi protegge amorosamente.

Sono arrossata e calda.
Credo quasi di essere enorme.
Sono stupidamente felice,
i miei stivali di gomma
sciaguattano
su e giù
nel rosso stupendo.

Questa è la mia proprietà.
Due volte al giorno
la percorro,
annusando
il barbaro agrifoglio
con i suoi smerli verdeazzurri,
ferro puro,

e il muro
di antichi cadaveri.
Li amo.
Li amo
come storia.
Le mele sono dorate,
pensa –

I miei settanta alberi
che reggono
i loro globi rosso oro
in una densa e grigia zuppa di morte,
i loro milioni
di foglie d’oro metalliche
che trattengono il fiato.

O amore, o casto.
Nessuno eccetto me
cammina in questo bagnato

che arriva alla cintura.
Gli insostituibili ori
sanguinano e scuriscono,
le bocche delle Termopoli.

11 novembre 1962, Sylvia Plath

(traduzione di Anna Ravano)

Lettera in novembre // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

In Lettera in novembre Sylvia Plath si rivolge al suo io profondo, alla coscienza viva e segreta che è come relegata e nascosta nell’antro oscuro di una caverna e fuori dalla percezione della chiarità di integri e smisurati orizzonti. Al suo io si rivolge con infinita dolcezza e, invocandolo come innocente essenza d’ “Amore”, lo esorta affinché la guidi oltre il triste spettacolo di una realtà dell’esperienza che è tutta risolta nell’incongruenza e nel disordine.

Si tratta di una realtà alterata e in continua evoluzione, una realtà che cambia e trasforma non solo gli eventi personali, ma la stessa natura, soggetta al ciclo delle stagioni. Lettera in novembre è, quindi, una presa d’atto che gli elementi dello spazio-tempo subiscono una metamorfosi. Ed è così che il mondo “muta colore”, si veste di altre atmosfere riflesse nella “luce del lampione alle nove di mattina”. Ma si faccia attenzione al fatto che la “luce” non è quella del giorno, ma è la “luce del lampione” che si infrange al di là dell’albero del “laburno”.

Luce della notte che irrompe nel giorno come una saetta “oltre ai baccelli coda-di-topo”, pianta il cui legno veniva anticamente usato per costruire archi. Viene da chiedersi, dove corre questa luce notturna? Dove vanno gli inquieti pensieri della coscienza? Fin dove intendono spingersi attraverso il messaggio di una Lettera in novembre? Di certo non sostano nell’antro di una caverna, non restano spettri, né ombre vaganti, seguono una direzione precisa e cercano uno spazio primitivo, un ente primordiale, una dimensione integra in cui rispecchiarsi ed essere.

Sylvia Plath osserva gli orizzonti dell’ “Artico” che, nella distanza immensa, assumono le forme di un “piccolo cerchio nero”, un cerchio in cui vanno i riflessi della “luce del lampione” (luce della lungimiranza), gli stessi riflessi che si spargono su “erbe di seta fulva – capelli di neonato”. Dunque, l’essere è vivo e sente il richiamo di un’energia vitale. Lettera in novembre è parola che vibra nel ritmo di un vergine respiro, nel soffio che avanza tra fili d’erba che simboleggiano una nuova nascita nei “capelli di un neonato”.

Nascita accompagnata da “un verde nell’aria, tenero, delizioso”: è l’avvento di una ritrovata speranza; e c’è un qualcosa di primitivo e misterioso che “protegge amorosamente”, che accompagna tale rinascita, rivendicandone la legittimità ad essere nelle atmosfere di Lettera in novembre. Siamo alla magia alchemica, alla trasmutazione che rende Sylvia Plath “Arrossata e calda”, viva e concreta, visibile come un “essere enorme”, creatura che si dilata nell’infinito, carica della stessa energia dell’universo.

Energia cosmica, potenza del Creato, forza in divenire che genera nuove emozioni, lo stupore e la meraviglia della scoperta. Sylvia Plath affronta il mondo con la fiducia di un bambino e vuole essere “stupidamente felice”. Questa scoperta freschezza d’animo si espande nei versi di Lettera in novembre, è manifesta gioia dell’io che si riconosce nello specchio delle parole, mentre i suoi “stivali di gomma sciaguattano su e giù nel rosso stupendo”.

Stivali di gomma”, calzari costruiti dall’uomo che impediscono di avere un contatto autentico con la natura, e che ora girano a vuoto, si frangono “nel rosso stupendo”, nell’aria accesa e profumata di un vagheggiato giardino dove trovare vero respiro. Questo giardino paradisiaco, in cui Sylvia Plath trasmuta la sua anima, è una proprietà inviolabile, accessibile solamente a chi riesce a comprendere l’essenza epifanica dei versi di Lettera in novembre.

E, per “Due volte al giorno”, attraversa e visita questo spazio ignoto e misterioso, “annusando” le primitive fragranze, la vita stessa negli odori del “barbaro agrifoglio”, dove si ritrovano i ricordi nel “muro di antichi cadaveri”, nella memoria dolente di tante speranze tradite; sogni infranti e lunghe attese che sono la sua “storia”.

Attese, sogni e speranze, un mondo paradisiaco immaginato e mai realizzato, un luogo della perfezione e della gioia, un eden popolato da “settanta alberi” in cui si celebra la sacralità del mistero di Dio e della vita. Alberi avvolti da “una densa e grigia zuppa di morte”, da uno squallore opprimente che devia il corso naturale della vita, costringendo ad una sospensione di senso e di significato.

Lettera in novembre è documento di una terrificante realtà che stringe le “foglie d’oro metalliche che trattengono il fiato”. Un’aria irrespirabile si espande ovunque, impedendo di essere se stessi, di dar voce a quell’io segreto e profondo di cui si è detto all’inizio. Eppure, nel vortice che tutto stravolge, Sylvia Plath “cammina in questo bagnato che arriva alla cintura”, si fa strada nelle acque fangose di un acquitrino storico, nel mondo nefasto dell’esperienza umana.

E a questo mondo terrificante non possono che fare da controcanto “le bacche delle Termopoli” il cui splendente cielo accoglie “gli insostituibili ori”, i bisogni che “sanguinano e scuriscono” nel baratro di un nulla che è la storia degli uomini.

Dipartimento di Lettere e Filosofia, prof. Ciro Sorrentino

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