Totem // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

Totem // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

Totem

La locomotiva sta uccidendo i binari, i binari sono d’argento,
si spingono lontano. Ma saranno mangiati ugualmente.

È una fuga inutile la loro.
All’imbrunire c’è la bellezza dei campi annegati,

l’alba indora come maiali gli allevatori
che oscillano piano nei loro abiti spessi,

bianche torri di Smithfield come meta,
cosce grasse e sangue nei loro pensieri.

Non c’è clemenza nel luccichio delle mannaie.
La ghigliottina del macellaio che bisbiglia. “Ti piace così? E così?”

Nella terrina è abortita la lepre:
tolta di mezzo la testolina, è imbalsamata in spezie,

scuoiata di pelliccia e umanità.
Mangiamola come la placenta di Platone,

mangiamola come Cristo.
Questi sono coloro che furono importanti –

i loro occhi tondi, i loro denti, le smorfie
su un bastone che crepita e schiocca, un serpente finto.

Mi lascerò atterrire dal cappuccio del cobra –
della solitudine del suo occhio, l’occhio delle montagne

attraverso cui sfila eternamente il cielo?
Il mondo è caldo come il sangue e personale

dice l’alba, con la sua vampa sanguigna.
Non esiste stazione finale, solo valigie

dalle quali esce e si dispiega lo stesso io come un vestito
liso e lustro, con le tasche piene di desideri,

opinioni e biglietti, cortocircuiti e specchietti pieghevoli.
Sono pazzo, esclama il ragno, agitando le sue molte braccia.

E in verità è terribile,
moltiplicato negli occhi delle mosche.

Ronzano come bambini lividi
in reti di infinito,

accalappiate infine dall’unica
morte con i suoi molti bastoni.

28 gennaio 1963, Sylvia Plath
(traduzione di Anna Ravano)

TOTEM // SYLVIA PLATH IN “LA SCOPERTA DEL DOPPIO E IL VIAGGIO DI PIERROT” – PROF. CIRO SORRENTINO

Al fondo della complessa struttura della poesia Totem è chiaramente riconoscibile il pensiero poetico di Sylvia Plath, il suo personale e particolare modo di osservare la spietata inclemenza di un mondo che soffoca e uccide la vitalità dell’essere. E di questa empia realtà Sylvia Plath raccoglie immagini della memoria personale, filtrandole alla luce di una dolorosa e più generale comprensione. La sua sensibilità le permette di rivisitare percezioni e tensioni che nascono pensando al Totem, l’archetipo mitologico da cui derivano considerazioni sull’eternità e sull’essenza stessa dell’universo.

Nonostante dai versi emergano toni severi e malinconici, è possibile cogliere la sottesa aspettativa di Sylvia Plath, il desiderio di librarsi ben oltre l’effigie di un Totem artefatto, il bisogno di inoltrarsi verso nuovi orizzonti dove decifrare e scoprire verità assolute. Sylvia Plath si avventura in un viaggio di conoscenza e metamorfosi: le metafore accese e sentite di Totem, sono versi di sangue, il sangue di Sylvia Plath che scrive e dice per rappresentare luci e ombre di un mondo umano che va oltrepassato, se si intende scorgere il mistero dell’esistenza.

Totem va considerato come l’apice e l’epilogo della sua poetica: Sylvia Plath si spinge al di là del visibile per aderire al soprannaturale. Per questo motivo, utilizza un linguaggio semplice e preciso, ricorrendo a termini e simboli adatti a comunicare il suo incontro con un mondo altro. Conoscenza del vero, dunque, che si manifesta come una sana inquietudine e un’ansia di scrutare ciò che trascende il tempo umano. In Totem Sylvia Plath svuota la parola di ogni residuo orpello e usa termini netti che possano meglio rendere la drammaticità di una realtà mistificata e storicamente persa nella brutalità dell’esistenza quotidiana.

Va subito evidenziata la relazione Totem/Io/Sylvia: a dare respiro e parola al Totem, è la stessa Sylvia Plath. Nel Totem/Io/Sylvia prende forma e consistenza il bisogno di scoprire il fondo dell’anima e il flusso di energie emotive che si fondono al pensiero. Attraverso un processo di scarnificazione e di rimodulazione dell’io nell’ente totemico, Sylvia Plath scopre il significato ultimo dell’esistenza e raggiunge una comprensione profonda del tempo. A dispetto delle difficoltà e del dolore che ha affrontato nella storia, trova l’energia necessaria per rialzarsi e fare nuove esperienze di rinascita. Solo attraverso l’esorcizzazione e la razionalizzazione della sofferenza, Sylvia Plath può superare il dolore e trovare una via per ricominciare.

L’adesione al Totem, la reincarnazione nell’ente oggetto di culto, è un processo di ricerca interiore, la condizione indispensabile per sondare le profondità dell’anima e per dare voce alle più intime emozioni. Questo processo di esplorazione, trasposizione e trascendenza è una parte fondamentale della poesia e dell’arte di Sylvia Plath. Ed è un processo che passa attraverso la mimesi della morte, morte di ogni artefatto e di tutti i feticci che generano assuefazione al culto dei falsi miti. La morte del Totem, che è distruzione del tempo storico-sociale, diventa l’unica via per liberarsi dalle catene del passato e delle delusioni, l’occasione per trovare una nuova dimensione in cui esprimere se stessa e, finalmente, raggiungere una pienezza d’assoluto.

Questa mimesi della morte non è atto di negazione della vita, è la provocazione per mettere in discussione l’ordine delle cose, per ribellarsi al conformismo e alla banalità della società delle morte forme e dei feticci. È un modo per cercare la verità e l’autenticità, anche se ciò significa affrontare la solitudine e l’angoscia che ne derivano. Nella demolizione di ogni contraffatto Totem, Sylvia Plath apparenta la morte non già all’estinzione del corpo, ma ad uno stato mentale, ad una condizione di alienazione e di estraneazione dalla realtà. La mimesi della morte è un modo per esplorare e affrontare ansie, angosce e paure. E, dunque, è un atto di resistenza. È un gesto per combattere l’assuefazione alla morte (da intendersi come non-vita), l’estremo impulso per rifiutarne l’inevitabile peso, creando piuttosto un senso di permanenza nella vita.

La messa a nudo delle alterazioni e delle sofisticazioni con cui sono stati innalzati i Totem serve a trasformare la morte stessa in un’opportunità di rinascita e di crescita spirituale. La scelta salvifica è quella di intraprendere un nuovo viaggio per annullare i ricordi ed estraniarsi alle finzioni di un mondo spento, artefatto e disarticolato. Paradossalmente, l’alternativa al buio e alla disperazione è quella di trasformarsi, per impersonare e assumere, con sentimento e ragione, l’essenza di un Totem.

La parola ‘viaggio’ qui assume un significato metaforico, non va intesa come un percorso materiale, ma come un cammino interiore e psicologico attraverso l’esperienza, quell’esperienza che per Sylvia Plath si sviluppa nel tempo della vita come distorsione temporale, scissione dimensionale e disarticolazione alienante dell’essere. Sono queste le circostanze esperite nel mondo sociale che determinano il senso dell’assenza definitiva e del nulla opprimente, sono queste le mistificazioni totemiche che negano ogni possibilità di scelta e di adesione al presente della vita.

La realtà che Sylvia Plath sperimenta, mentre le trasmette una sensazione di freddo e asettica calma nel cuore, le consente di comprendere l’ineluttabile crollo degli idoli, dei feticci, di ogni Totem. Sylvia Plath avverte l’asimmetria delle categorie di spazio e tempo, scopre come l’esperienza della vita fa involvere e contrarre l’anima, lasciandola implodere e successivamente centrifugare in una miriade di frantumi. Questa scoperta la spinge a districarsi dal labirintico e vorticoso vuoto dell’esistenza. Per Sylvia Plath la realtà della storia non dà scampo: l’irrevocabile torsione dello spazio e del tempo fa crollare ogni speranza in un infinito buio, la non-vita terrena (intesa come logoramento mentale e psicologico) nega ogni possibilità di immergersi in un mondo di affetti e sentimenti autentici e di aderire alla vita con integra e genuina naturalezza.

L’oscuramento del sogno è solo il triste preludio del vero dramma che si sviluppa nella tragica condizione esistenziale di Sylvia Plath, costretta a vedersi in una vasta pianura deserta e desertificata dall’inconsistenza del tempo oggettivo. La poesia Totem esprime proprio il conflitto tra il sogno e la ragione. Nelle immagini contrastanti presenti nel testo, si può vedere la fine e, allo stesso tempo, la rinascita. La ‘rinascita’ si collega alla capacità di Sylvia Plath di affrontare i dolori e scoprire nuovi segni nella rovina del tempo. Nonostante la tristezza e la solitudine, la protagonista canta il dolore e lo razionalizza, trovando in esso segnali di un nuovo futuro e di un destino diverso, aprendosi a una nuova disposizione verso la vita. Ciò che la sostiene e fortifica è la ragione che impedisce di arrendersi a una realtà inspiegabile. Nonostante la disarmonia della storia, Sylvia Plath sa che vivrà nuove primavere nei giardini fioriti della sua infinita conoscenza.

In Totem, Sylvia Plath analizza e rivive esperienze di una realtà che distorce la naturalità dell’esperienza, al punto tale da ridurre il tempo dell’esistenza a una non-vita. E, nell’alternarsi di sensazioni e pensieri, si rende conto che non può fare nulla per cambiare il corso degli eventi. Tuttavia, nonostante il dolore, la coscienza del suo essere desidera illuminare le pareti oscure della realtà con i colori dei fiori, riempiendo il mondo di atmosfere estatiche e di spazi onirici da riconquistare. La memoria crea turbolenze magiche, mentre la ragione ripercorre le fasi cognitive e storiche che causano tanto disagio psicologico ed emotivo. Sylvia Plath sperimenta il peso di un dolore intimo e indicibile. Tuttavia, per sentirsi viva e cercare una dimensione di consistenza e fede, assume l’essenza del Totem. La conclusione, apparentemente rovinosa, rivela il desiderio di inseguire il proprio mondo interiore. Dopo aver toccato il fondo tragico della disperazione, Sylvia Plath trova dentro di sé l’impulso e la vitalità per emanciparsi e vivere con chiarezza, al di là del silenzio della non-vita. Il suo viaggio nella storia si conclude nell’identificazione con il Totem.

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Volendo analizzare la poesia Totem, nella prospettiva di un’arte che per noi è organismo poetico vivo e pulsante, occorre subito precisare che l’esistenza stessa di Sylvia Plath si è evoluta fino a determinarsi come un Totem, oggetto di culto e di profonda riflessione per chi ama ripercorrere nei suoi versi un viaggio di conoscenza autentica. È un fatto che la sua vita sia consacrata alla poesia e alla scrittura in generale. Si tratta di un’esperienza storica che, mentre approfondisce l’analisi delle inquietudini personali, passa in rassegna la conflittualità e le incongruenze di un mondo che maschera ogni verità, in primis quella di interrogarsi sul fine ultimo dell’esistenza.

Sylvia Plath è emblema e simbolo di autenticità, un Totem che, anche dopo la sua morte, continua a incuriosire tante intelligenze che cercano nel suo pensiero, un indizio di sapere per superare i confini della scienza umana e aderire all’assoluto. Il Totem si anima nello sguardo attento di Sylvia Plath che dal suo osservatorio indaga la disarmonia del mondo reale, rappresentandone le tensioni sociali che suscitano conflittualità e dissidi sul piano psicologico, emotivo e razionale.

Le suggestioni della realtà, se da una parte procurano inquietudini, dall’altra generano un sentimento di scoperto stupore nel momento stesso che si riesce a oltrepassare gli artifici del mondo visibile così sconcertante da turbare gli uomini affaccendati nel difficile vivere quotidiano. Un Totem di fede in un ritrovato spirito critico, un Totem della poesia che si fa vita nel dinamismo critico. Nella memoria del Totem, nella storia di Sylvia Plath, ormai trasfigurata in un Totem, il lettore può avvertire la sensibilità di una donna che ha compreso come la verità sia oltre lo spazio vissuto dall’io, un io soggiogato e confuso da un mondo che non sorprende la coscienza dell’essere.

Il Totem, l’alter ego di Sylvia Plath, è, dunque, un ente simbolo della ragione critica, lo strumento per decodificare gli eventi, cercando di avvicinarsi il più possibile all’inarrivabile e inattingibile verità della creazione. La poesia stessa è ormai divenuta un processo totemico che cresce in sincronica simbiosi con l’esercizio linguistico, tanto che il necessario formalismo retorico diviene un ritmo armonico, dialetticamente orientato allo studio della realtà, con l’unico fine di oltrepassare ogni finitezza e aderire alla verità cosmica.

Nel Totem, nella persona di Sylvia Plath inferiscono le molteplici sfaccettature del vivere, le immagini a volte crudeli altre volte appaganti del quotidiano. Si tratta di un crescendo di riflessioni sul dolore di una vita che scarnifica e frantuma, una vita che costringe al sacrificio della croce. Nella complessa struttura metaforica della poesia le immagini si susseguono rapide, in un’apparente assenza di legami, e diciamo apparente perché i sui versi traspongono proprio una disarmonia totale e imperante, la disarmonia dell’esistenza della quale non si può dare un’immagine compiuta se non attraverso una correlazione di metafore, metafore che sono come tasselli di un mosaico da ricomporre per transitare verso la comprensione del processo di reincarnazione.

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In Totem, il tempo della storia, simboleggiato dalla “locomotiva” che si spinge in avanti, come accelerando in una folle e irrefrenabile corsa, sembra quasi fagocitare e centrifugare la vita e le sue possibili aspettative, i probabili approdi, gli scali e gli arrivi dei “binari”. E, anche se “i binari sono d’argento” e preziosi, forgiati con il valore e la pienezza delle emozioni e dei più alti pensieri – che portano “lontano” dalle angustie del misero presente –, “saranno mangiati ugualmente” dalla “locomotiva”, vale a dire dal tempo della non-vita, dalla finitezza dell’esistenza umana che prevarica sempre le ragioni dell’essere, inglobando ogni pretesa di libertà, ogni scatto verso l’adesione all’Oltre.

Dunque, il protendersi dei “binari”, la loro proiezione verso un mondo altro, si risolve in una “fuga inutile”, in uno slancio destinato ad esaurirsi e al conseguente ritorno al punto di partenza e, quindi, ad una stasi irrisolvibile. Ne deriva che i “binari”, anche se aprono a sentieri misteriosi e nuovi, nel continuo articolarsi e distendersi, tra curve e rettilinei, nel loro inarcarsi tra salite e discese, sono comunque destinati a finire, lasciando l’essenza dell’io come tramortita dal peso delle sue stesse attese, dal crollo di tante speranze e desideri inevitabilmente destinati ad arenarsi.

E la loro inutile corsa ha termine “all’imbrunire”, che viene a definirsi come il tramonto delle attese e dei sogni precipitati nel buio, non avendo avuto possibilità di materializzarsi in certezze. L’immagine poetica, compresa nei relativi versi, è piena di delicata quanto tragica amarezza: tutto si è compiuto, la corsa è finita, la ‘battaglia’ si è risolta in uno sterminio di aspettative. Di fronte a tanto silenzio, Sylvia Plath prende coscienza di una bellezza della vita intrisa di amara nostalgia e rimpianto; ciò che resta è “la bellezza dei campi annegati”, la consapevolezza che tensioni e motivazioni giacciono franate, perdute sotto le tempestose correnti dell’umana esistenza.

Questa coscienza le permetterà di osservare la prossima alba da una prospettiva tutt’altro che gioiosa, e infatti può dire: “l’alba indora come maiali gli allevatori”. Non sono i prati della speranza ad essere illuminati: il giorno si apre nella cruda indifferenza di un mercato specializzato nella vendita di carni. Ed è proprio questo il luogo poetico che simboleggia un tempo storico disarticolato e vieto, – è l’esperienza della storia che uccide ogni possibile redenzione.

Il tempo umano nulla concede, “non c’è clemenza nel luccichio delle mannaie” che inesorabilmente decapitano le corolle dei sogni e lo slancio ad emanciparsi attraverso una relazione di adesione e partecipazione al mistero della vita. Ed è per questo motivo che non possono più sorgere speranze e sogni, la vita stessa non può più nascere: “nella terrina è abortita la lepre” che, difatti, è emblema di libera aspirazione a correre svincolata e libera nei campi infiniti. E, con la lepre “abortita”, si spengono le luci della fantasia e del pensiero. Siamo di fronte ad un mondo che si adopera con strumenti di morte, perché sia “tolta di mezzo la testolina”, perché sia “imbalsamata in spezie, scuoiata di pelliccia e umanità”.

Tutto deve essere azzerato e trasformato in falsità. Ma è pur vero che la possibile riabilitazione della coscienza può realizzarsi solo mediante una ritrovata capacità di discernere il vero dal falso. E, dunque, l’invito di Sylvia Plath è quello di rinascere nello spirito libero della lepre, nella libertà e vivacità di pensiero che hanno incarnato “Platone” e “Cristo”. Ed è in virtù di questo atto di rinascita che Sylvia Plath apparenta la “testolina” ad un’ostia di redenzione. Platone e Cristo, simboli di filosofia e religione, nella loro lungimiranza, hanno indicato ai posteri i motivi e i fini per cui vivere, il sentimento della comprensione e della compassione.

Eppure, la storia e gli uomini che l’hanno scritta, hanno mistificato il messaggio, alterandone il senso. L’umanità ha edificato fallaci miti, ha idolatrato statue e Totem. Non c’è più nessuno interessato ad usare il “bastone che crepita e schiocca” per cercare la verità, c’è solo un Totem alterato “che crepita e schiocca” come “un serpente”, il serpente del tempo storico che, nelle sue mistificazioni, dà valore alla “ghigliottina” del “serpente finto”.

In tanta mistificazione Sylvia Plath non ha paura e lancia un monito a se stessa: “Mi lascerò atterrire dal cappuccio del cobra – dalla solitudine del suo occhio, l’occhio delle montagne attraverso cui sfila eternamente il cielo?”. Ed è in questo interrogativo che Sylvia Plath smaschera e disconosce il Totem: nessun simulacro le può vietare di indagare l’Oltre e l’Altrove, la misteriosa dimensione del tutto-nulla, nascosta ad arte dalle maschere sociali, al di là delle quali è possibile immaginare e tendere all’eterno infinito.

Da tale pensiero poetico deriva che ogni individuo, guardando con attenzione le luci dell’ “alba, con la sua vampa sanguigna”, può comprendere che nel tempo dell’esperienza umana non c’è “stazione finale”, nessuna destinazione potrà mai essere quella definitiva. Il segreto per addivenire alla scoperta del vero è nel capire che l’ ‘io’ deve sentirsi sempre pronto a partire con le sue “valigie” per ulteriori viaggi di scoperta e di avvicinamento alla perfezione.

Siamo alla coscienza dell’essere, alla consapevolezza dell’ ‘io’ che rinasce in “un vestito liso e lustro, con le tasche piene di desideri”. Si tratta di un ‘io’ che coraggiosamente si avventura con il suo bagaglio di esperienze, “con le tasche piene di desideri, opinioni e biglietti, cortocircuiti e specchietti pieghevoli”. “Specchietti” in cui riconoscersi, come identità assoluta. L’identità di un “ragno” che nella sua opera di tessitura fa paura alle “mosche” (leggi persone) che sono maschere e fantasmi, individui senza identità, confusi e ciarlieri. Si tratta di uomini senza coscienza di vivere, ignari e forse già abortiti come la “lepre”. Da tanto dolore, a tanta angoscia resiste solo l’anima di chi ancora si emoziona e pensa, la logica senziente dell’ io-ragno alle prese con le sue creazioni nelle sue “reti d’infinito”.

Dipartimento di Lettere e Filosofia, prof. Ciro Sorrentino

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