La rivale // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

La rivale // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

Se sorridesse
la luna somiglierebbe a te.
Tu fai lo stesso effetto:
di qualcosa di bello
ma che annichilisce.
Tutti e due
siete dei grandi scocciatori.
La sua bocca a O
si accora sul mondo;

la tua non fa una piega,
tu pietrifichi ogni cosa.
Guardo, c’è un mausoleo;
eccoti qui che picchietti
il marmo del tavolino,
cerchi le sigarette,
sprezzante come una donna,
ma non così nervoso,
e muori dalla voglia di dire impertinenze.

Anche la luna
i suoi sudditi umilia,
ma di giorno
è ridicola.
I tuoi malumori, d’altra parte,
arrivano per posta
amorosamente regolari,
bianchi e vani,
espansivi come il gas.

Non c’è giorno al riparo da notizie di te,
magari a spasso in Africa, ma pensando a me.

Luglio 1961 Sylvia Plath

(traduzione di Giovanni Giudici)

In La rivale Sylvia Plath mistifica ogni possibile interlocutore, finge un dialogo diretto, ma in realtà parla alla sua coscienza che insorge per reclamare uno statuto di oggettiva presenza al mondo. Si tratta di una coscienza sorridente e libera, così pura che stordisce per la sua armoniosa bellezza. E di fronte a questa natura perfetta della coscienza, la maschera sociale cade e Sylvia Plath può dire: “se sorridesse, la luna somiglierebbe a te. Tu fai lo stesso effetto: di un qualcosa di bello ma che annichilisce”.

Il paragone alla luna viene ampliato nella terza strofa, laddove la coscienza/luna, La rivale, è signora della notte tanto che la sua luce si espande regolarmente nell’aria, accendendo dubbi e perplessità, strappando finte certezze e maschere. Di notte la coscienza dell’essere si anima perfetta e parla con la “bocca a O” della luna, e “non fa una piega”, in modo che si “pietrifichi ogni cosa”, ogni presunzione.

Una coscienza che esce da una tomba monumentale, da “un mausoleo”, che scuote il “marmo” sepolcrale, “sprezzante”, desiderosa “di dire impertinenze”, una coscienza che ardisce con coraggio e dice e parla. È una coscienza critica, La rivale che giganteggia nell’universo infinito e come “la luna i suoi sudditi umilia”, mortificandoli per la loro inettitudine.

Scontenta, inappagata e inquieta coscienza, i suoi “malumori” sorgono quotidianamente, “arrivano per posta amorosamente regolari, bianchi e vani espansivi come il gas”: si tratta di insofferenza e rabbia, inquietudine e dispiacere. Sono pensieri e verità che si accendono nella loro bianca e pura autenticità, pensieri che restano inascoltati da tanti.

Eppure, nonostante tutto, sono “notizie” ed espressioni vitali di una coscienza che se pure fosse sperduta nelle vaste terre dell’ “Africa” non rinuncerebbe mai a gridare tutto il suo dolore.

In La rivale Sylvia Plath esprime le sue emozioni di fronte alle pose della scoperta coscienza dell’essere. Dietro il tono colloquiale prende forma e sostanza l’accento riflessivo di un monologo interiore, quasi l’autrice stesse rivisitando la sua storia personale, in un serrato dialogo con La rivale. La sua sorprendente capacità immaginifica trasforma l’evento dialettico in un rifiorire della coscienza che, se da un lato, si espone ad un processo di autoanalisi, dall’altro, si appresta ad avviare una valutazione dei comportamenti e delle abitudini assunte dagli uomini.

L’evento e l’avvento di una coscienza critica, l’epifanica manifestazione di La rivale, allude al sopraggiungere di un io puro e innocente, profondo e misterioso che, raccontandosi, ripercorre un viaggio temporale a ritroso. Nello specchio della coscienza, con la lungimiranza di un grillo parlante, Sylvia Plath scopre l’inconsistenza di un tempo-vita destinato ad una fine tutt’altro che radiosa; ed è così che può dire “tu pietrifichi ogni cosa”, tutto ciò che è materiale, e che è destinato presto ad esaurirsi.

Quanto poi al dire “Tu fai lo stesso effetto: di qualcosa di bello ma che annichilisce.”, esso assume rilevanza sul piano metafisico: le ragioni profonde dell’essere si rivolgono contro l’io sociale, così lontano dalla comprensione di una dimensione altra ed assoluta. Si tratta di uno strappo che procura un doloroso ingresso nella vita, La rivale lancia il suo grido di dolore in un mondo artificioso, pieno di finzioni e travestimenti. Un grido che è purezza senza limiti, essenza d’infinito costretta in un corpo che procura angoscia e sofferenza.

Fatta salva la tesi che Sylvia Plath stia parlando al suo doppio, La rivale, ne deriva che la sua anima avverte le pesanti atmosfere dell’esperienza in cui è stata trascinata dalle circostanze storiche. Il mondo passato e quello presente è popolato da morti viventi, è un “mausoleo”, un coacervo di funeree maschere che costringono alla sperimentazione della non-vita. Ed è tanto più vera questa considerazione perché un sepolcro è, per se stesso, inanimato, plasmato secondo idee e forme impresse dalla mano dello scultore. E se anche l’artista si è lasciato guidare dalla sua fantasia per scolpire e magnificare la marmorea pietra, è pur vero che la materia tale rimane, oggetto privo di pensiero e spiritualità.

Sylvia Plath avverte di essere schiacciata e compressa dalla realtà della non-vita, sa di essere stata incatenata in un corpo, messo in bella mostra in una dimensione sociale che è luogo amorfo, luogo limite della non condivisione delle più profonde emozioni. Ad essere negato è il pensiero, il pensiero di La rivale che si protende in un grido di sofferenza per vincere ogni finzione e dichiararsi. Ed è in questo simulacro di una realtà incolore, così sbiadito e formalmente omologato sul piano sociale, che la semplicità della sua anima sconfessa le certezze e le fedi degli uomini.

Nasce qui il monito di La rivale che, in un estremo anelito di salvezza, vuole rapportarsi ad un’innocenza primitiva, ormai smarrita da chi non è in sintonia con l’energia del tutto-nulla, con la pienezza dell’Oltre. Quella sana e perfetta innocenza si scioglie in una velata rievocazione, è una percezione che squarcia il nero velo della silenziosa solitudine dell’uomo. Nudità della coscienza che, mentre procura smarrimento e senso di indeterminatezza, fa da specchio all’insolvenza ad essere e alla scoperta delle false certezze.

L’intenzione di La rivale è quella di scrutare l’immensità, azzerando le distanze con Dio. Questa nostra affermazione trova conferma quando dice “Non c’è giorno al riparo da notizie di te”, laddove Sylvia Plath riconosce di appartenere ad un mondo altro e diverso: la sua coscienza è in sintonia con la “Stasi nel buio” (Ariel), il suo intelletto avverte la durata della notte, indistinta e indecifrabile dimensione, a metà tra il tempo del tutto-nulla e l’esperienza umana.

Siamo all’avvertimento di una doppia posizione: la sospensione è tra il sentimento d’appartenenza al tutto-nulla e il vincolo di una natura svuotata di luce e consistenza di colori. Così bloccata e sospesa, quasi interdetta, La rivale sta come un naufrago in attesa di salvezza, e si aggrappa a ogni minima percezione, guarda e ascolta, resta in continua tensione. Nella sua dolorosa paralisi finalmente le giunge il rumorio accennato, quasi impercettibile di un fruscio, è un’onda di sensazioni che si sovrappongono.

Ed è per tale epifania dell’Oltre che La rivale può lanciare un grido intenso; è il grido di una creatura dalle “nove vite” (“Lady Lazarus”), bocca-oracolo non ancora riempita di parole artificiosamente manipolate dal pensiero umano. E se il mondo artefatto prende forma e consistenza nel “marmo del tavolino”, al suo io dice “muori dalla voglia di dire impertinenze”, riconoscendogli il coraggio di farsi testimone di una perduta saggezza.

Sylvia Plath sente di essere prigioniera nella stanza della realtà che, per quanto accogliente e confortevole, è una delle tante stanze create ad arte per negare all’essere la vera e definitiva comprensione del ciclo vita-morte-rinascita. In questa realtà popolata da uomini già morti, Sylvia Plath, ormai identificatasi in La rivale,  prova l’iniziazione alla vita, e dà ascolto all’io profondo “I tuoi malumori, d’altra parte, arrivano per posta amorosamente regolari, bianchi e vani, espansivi come il gas.”.

Sono parole e suoni ancora integri, non appesantiti dall’afosità delle ambigue e incompiute atmosfere della non-vita. Sono parole che salvano – “Non c’è giorno al riparo da notizie di te, magari a spasso in Africa, ma pensando a me” -, echi di una verità che la realtà della non-vita mai potrà piegare al silenzio.

Dipartimento di Lettere e Filosofia, prof. Ciro Sorrentino

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