Canto di Maria // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

Canto di Maria // Sylvia Plath 

L’agnello domenicale
sfrigola
nel suo grasso.
Il grasso
immola la sua opacità…

Una finestra, oro santo.
Il fuoco la fa preziosa,
lo stesso fuoco
che strugge sugna d’eretici
e stermina gli ebrei.

Planano
i loro spessi mantelli
sulla cicatrice della Polonia,
bruciata Germania.
Loro non muoiono.

Incalzano
grigi uccellacci
il mio cuore,
bocca-cenere, cenere di occhio.
Si posano.

Sull’alto precipizio
che un solo uomo
svuotò in spazio
i forni ardevano come cieli,
incandescenti.

È un cuore
l’olocausto a cui vado,
o figlio aureo
che il mondo
ucciderà e mangerà.

19 novembre 1962, Sylvia Plath

(traduzione di Giovanni Giudici)

Canto DI MARIA // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

L’inizio di Canto di Maria ci porta immediatamente all’immaginario poetico di Sylvia Plath, a quella sua particolare visione della vita permeata di atmosfere altre, mediante le quali cerca ardentemente di squarciare gli aspetti e i colori di una realtà troppo fredda ed oscura; una realtà distante dai bisogni psicologici e dalle intime urgenze dell’animo. Sembra quasi che Sylvia Plath voglia dimostrare che la realtà dell’esperienza segua delle ferree regole cui è difficile sottrarsi. A queste leggi fa da contrappunto solo il grido dell’animo che, nel Canto di Maria – vergine e madre di Cristo –, cerca di ripararsi dal dilagante gelo, rifugiandosi in una diversa considerazione degli aspetti più impercettibili, semplici ed attesi.

Nell’incipit Sylvia Plath scopre subito il bisogno irrefrenabile di liberare il candore dell’anima dalla ripetitività delle azioni, “L’agnello domenicale sfrigola nel suo grasso”. E questa aspirazione si conferma ogni volta che, in una sottesa preghiera – nel Canto di Maria –, osserva come “Il grasso immola la sua opacità…”. Si tratta di un magico evento, di una ‘catarsi’ per la quale “l’agnello” e il cuore, che esso rappresenta, scoprono una forza primitiva, uno slancio che spinge l’essere verso una zona altra rispetto all’apparente normalità dei modi di essere e di sentire.

In Canto di Maria Sylvia Plath postula, dunque, la necessità di assumere una prospettiva che realizzi e percorra una terza via, per la quale sia finalmente possibile attuare una mediazione di mondi. Ed è a questa dimensione evoluta che Sylvia Plath indirizza il suo pensiero, e il suo massimo sforzo è quello di fissare la trasparenza di “Una finestra, oro santo”.

Sylvia Plath sigilla la sua metafora in Canto di Maria, e dice di un silenzio di “bocca-cenere, cenere di occhio”, nel disprezzo per “un solo uomo” che provocò la “cicatrice della Polonia”; e, contro lo scadere delle emozioni, fa rinascere la volontà del cambiamento e della trasformazione, quell’integrità dell’essere che viene colta e descritta in modo arcano: “È un cuore l’olocausto a cui vado, o figlio aureo che il mondo ucciderà e mangerà. L’evento liberatorio è segnato da un aspro sussulto del “cuore” che, nella morte, potrà liberarsi del suo angosciante carico di avverso gelo.

Leggendo con un’attenzione critica che va oltre il testo, in Canto di Maria, possiamo rilevare un’identificazione tra la morte e la coscienza dell’essere, quasi Sylvia Plath, guardandosi allo specchio, si prepari a morire per risorgere da una vita pietrificata e confusa dai fotogrammi irrelati della storia. Ed è in questo luogo poetico che si realizza la terza via, è nella coscienza dell’essere che l’idealità del divenire acquisisce forma e sostanza.

In Canto di Maria Sylvia Plath si proietta nella mistica della madre di Cristo e osserva come il mondo degli uomini sia asservito al rituale “domenicale” e come, parimenti al docile “agnello”, sia costretta a subire il peso del “suo grasso”, le maschere posticce e appiccicose. Si tratta di un sacrificio fine a se stesso, che celebra l’inespressiva opacità di una folla di anime sperdute nel deserto dell’incoscienza.

E, quantunque questa realtà possieda in sé una “finestra” che apre all’Oltre, alla divina lucentezza dell’ “oro santo”, le false fedi di un “fuoco” immorale e omicida prendono il sopravvento e colorano la vita con le tinte vermiglie di una fiamma che, in apparenza “preziosa”, confonde e uccide. É la stessa fiamma di chi dispensa angoscia e dolore, di chi, come immorali “eretici”, profana e uccide gli “ebrei”, di chi uccise Cristo stringendo il cuore di una madre nel sofferto pianto, nel Canto di Maria.

“Eretici” e miscredenti che svolgono le ombre della morte, come “spessi mantelli”, sulla memoria della sfregiata “Polonia”. Sono ricordi inquietanti, fotografie di una vita, memorie che “non muoiono” e che accendono pensieri di morte. Sono visioni di un presente che si maschera, pensieri che portano ai “forni” che spengono la vitalità, togliendo la possibilità di parlare e vedere il turpidume dilagante. Sono prese d’atto di una perfida volontà di vietare la parola e la vista, trasformando tutto in “bocca-cenere” e in “cenere di occhio”.

In Canto di Maria il verbo poetico di Sylvia Plath disegna le fiamme di quei “forni” scelti per il terribile “olocausto”. Quell’ “olocausto” che lei rivive nel suo “cuore”, nella sostanza divina del suo spirito che verrà immolato sull’altare di un mondo che lo “ucciderà e mangerà”.

Dipartimento di Lettere e Filosofia, prof. Ciro Sorrentino

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