I corrieri // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

I corrieri // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

Parola di lumaca sul niente di una foglia?
Non è la mia. Non ti fidare.
Acido acetico in latta sigillata?
Non ti fidare. È roba adulterata.
Un anello d’oro con dentro il sole?
Bugie. Bugie e dolore.
Gelo su una foglia, l’immacolato
cratere, parlante e sfrigolante
tutto per sé sulla vetta di ognuna
di nove nere Alpi.
Un tumulto di specchi,
e il mare che frantuma il suo, grigio –
O mia stagione, amore.

04.11.1962, Sylvia Plath

(traduzione di Giovanni Giudici)

I corrieri // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

Sylvia Plath – Nell’analisi di I corrieri, ci preme innanzitutto fare un esplicito ed esaustivo richiamo al significato e alla simbologia che la “foglia” assume nel linguaggio delle piante, anche perché questi riferimenti consentiranno un parallelismo tra il linguaggio poetico scelto da Sylvia Plath e il linguaggio degli alberi. In proposito, vogliamo ricordare che le piante sono le figure più diffuse tra i simboli religiosi ed esoterici dell’antichità. Associate spesso a delle divinità vengono loro attribuiti significati ultraterreni, sono appunto I corrieri dell’ “Altrove”. Nelle varie mitologie, le piante stabiliscono collegamenti tra il mondo degli inferi, della vita, degli dèi; in questo senso la loro trasfigurazione ne I corrieri assume una valenza fondamentale. Un ulteriore piano di significato acquisiscono le radici (il passato), il tronco (il presente), i rami e le foglie (il futuro). La stessa “conoscenza” viene collegata (da alchimisti e filosofi, mistici e sciamani) alla pianta, madre delle foglie.

Le “foglie” (generose produttrici d’ossigeno) sono metafora della “vita”, I corrieri di sanità e purezza, di naturalità e umiltà, di amore prodigo e altruismo, ma raffigurano, più di tutto, l’innocenza, in opposizione alla dissolutezza umana. Cercare riparo all’ombra delle foglie equivale ad una religiosa “confessione” ed è pegno di sentimento eterno: le varie forme e le diverse sfumature di verde allietano la vista, recando luce di speranza. D’altra parte, sul piano mitologico e poetico, i sommi poeti, I corrieri del verbo divino, venivano raffigurati con una corona di foglie d’alloro, a testimoniare la santità e la superiore magnificenza dei loro versi.

Tutta questa simbologia della foglia, che lascia trasparire il bisogno di un’anima in cerca della verità dell’ “Assoluto”, si lega all’apertura verso il nuovo, alla fiducia, alla determinazione. Anche se non specificata la specie, è chiaro che la foglia assume per Sylvia Plath una forma circolare, e lo si percepisce quando dice: “Gelo su una foglia, l’immacolato cratere, parlante e sfrigolante…”. È quel “cratere” (sia per struttura che per contenuto, cioè il magma incandescente) a rivelare la sua somiglianza con il Sole (non dimentichiamo che il Sole reca significati di espansione e circolarità, è energia della vita). Dunque, sole e foglia sono “corrieri” colmi di una carica di energia positiva: secondo l’assunto di Ermete Trismegisto nella “Tavola Smeraldina”: “Ciò che è in basso è come ciò che è in alto e ciò che è in alto è come ciò che è in basso per fare i miracoli della cosa una”.

Ha un cuore d’oro la foglia di Sylvia Plath, e per questa sua preziosità è un richiamo alla “perfezione dell’universo”, una perfezione che implica un diretto contatto con la natura, ma, prima di tutto l’esigenza di ritrovare semplicità e quiete nelle scelte emotive, affettive e sentimentali. In ultima analisi, la “foglia” è simbolo di energia e di slancio vitale, il suo fiorire, morire e rinascere apre possibilità ed alternative, opportunità altre e nuove: ed è appunto in questa prospettiva che si realizza l’identificazione di Sylvia Plath con le foglie, I corrieri del verbo divino.

La volontà di cambiamento e il fervido desiderio di ritrovarsi in un mondo diverso sospendono l’autrice in un “Altrove” “tutto per sé sulla vetta di ognuna di nove nere Alpi”. L’accostamento non è più solamente al Sole, ma alle grandi altezze, come a legittimare “un’angolazione prospettica” più ampia e complessa che si moltiplica dall’alto “di nove nere Alpi”. Da quelle vette Sylvia Plath può guardare le stelle e capire quanto è misero l’uomo, così fermo nelle sue opache convinzioni. Ma presto la sua sognante realtà viene scossa: “Un tumulto di specchi, e il mare che frantuma il suo, grigio”. In questi dolenti pensieri si concentra ed esplode lo sconfinato senso di vuoto, la percezione di una disarticolazione del reale che schianta ed atterrisce senza alternativa possibile, se non quella di allontanarsi, “guardando il cielo”, per proteggere la sua vita che definisce “O mia stagione, amore”.

La speranza di raccogliere una “foglia”, e quindi il sogno, la purezza, l’amore stesso, si lega ad una rinnovata coscienza nei cuori spenti degli uomini che si sono smarriti nel deserto dei loro egoismi e delle loro finzioni. Si spiegano così gli enigmatici versi d’apertura, e diventano comprensibili la “Parola di lumaca”, l’ “Acido acetico”, l’ “anello d’oro”. A Sylvia Plath non sfugge che quelle promesse sono tutte “Bugie. Bugie e dolore”. È una comprensione assoluta, mistica, che scopre ed ipostatizza l’inconciliabile rapporto e l’impossibile equilibrio tra linguaggio e parola. Si avverte la volontà di denunciare un ossimoro di fondo che crea i presupposti per un equivoco esistere, che, di fatto, precipita nella falsità: Sylvia Plath afferma che nessuno è più in grado di esprimersi con genuina sincerità e che generalmente si ricorre alla mistificazione e manipolazione degli affetti e dei pensieri.

Ma, di questa insanabile contraddizione, l’angelo/donna/poeta è cosciente e ne rivela la mostruosa insolvenza che vieta quello che in fondo è poi il fine ultimo del linguaggio: addivenire cioè a un confronto spontaneo con il prossimo per individuare le vere ragioni e l’amore che sostanzia e guida la vita. Purtroppo, l’enigmaticità dell’esistenza è un intrigo senza vie d’uscita, un labirinto di astruse ed astratte incongruenze che non risolvono, ma moltiplicano a dismisura i dubbi e le perplessità: ne consegue, che l’unica alternativa possibile è stringersi a “sé sulla vetta di ognuna di nove nere Alpi” e cercare, nella perfezione delle luminose geometrie celesti, un filo logico da seguire per individuare motivi e ragioni del continuo “arrovellarsi” del pensiero, che a nulla porta se non a nuovi insolvibili dubbi.

Eppure, ogni materia creata, quantunque sia persa e lontanissima nelle incolmabili profondità, fornisce un anello per completare il cerchio della conoscenza, ogni “vetta” diventa un tassello di conoscenza che cerca il suo incastro naturale, un incastro di verità che solo l’uomo può trovare e riconoscere. È qui dichiarato il vero messaggio dell’intera poesia e ci sembra opportuno fare un richiamo a Dante Alighieri: “fatti non foste per viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza” (Inferno – Canto ventiseiesimo). Potremmo aggiungere che la stessa Sylvia Plath vada con il lanternino di Diogene alla ricerca del vero, e che come Cartesio si riconosca in quel “cogito ergo sum” che nobilita l’essere umano, qualora diventi cosciente che “una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta”, Socrate.

Ne deriva che, anche se la realtà è “Un tumulto di specchi” – irrisolvibile mistero della vita -, “il mare” “frantuma il suo” specchio, così che, nel “grigio” (assenza di illusorie luminescenze), Sylvia Plath può dire – “O mia stagione, amore”. Una chiusura che auspica un’inversione morale e psicologica e che suona come monito e indicazione per realizzare, in questa vita, ciò che Dio vuole, e che null’altro è se non la totale partecipazione al Mistero della vita.

Dipartimento di Lettere e Filosofia, prof. Ciro Sorrentino

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