Pecora nella nebbia // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

Pecora nella nebbia // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

Le colline sconfinano in bianchezza.
Persone o stelle
mi guardano con tristezza, le deludo.
Il treno lascia una linea di respiro.
O lento
cavallo colore della ruggine,
zoccoli, dolenti campane –
Per tutta la mattina la
mattina si è andata annerando.
Un fiore trascurato.
Le mie ossa hanno requie, i campi
lontani mi sciolgono il cuore.
Minacciano
di assumermi fino a un cielo
senza stelle né padre, acqua buia.

02.12.1962  – 28.01.1963, Sylvia Plath

(traduzione di Giovanni Giudici)

Pecora nella nebbia // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

Pecora nella nebbiaSylvia Plath – Il verso d’apertura è già carico di amarezza, e rivela lo stato d’animo di Sylvia Plath che avverte pena e dolore nel vedere come i suoi pensieri si affastellino, mentre altre idee baluginano nella sua mente per poi svanire e lasciare il posto ad altre fulminee visioni mentali. È un fenomeno singolare, impregnato di una forza “circolare” che assorbe e stravolge ogni ipotesi e prospettiva razionale. La ripetitività di tale processo ossessivo, fa precipitare le verdi speranze delle “colline” e i luminosi sogni delle “stelle” in una stinta e desolata solitudine – va il poeta come Pecora nella nebbia.

Ancora una volta, nei versi di Pecora nella nebbia, Sylvia Plath mimetizza il suo effettivo interlocutore – solo “superficialmente” si potrebbe pensare a familiari, amici, conoscenti; di fatto, lei parla con se stessa, misura e valuta le esperienze che hanno segnato parte della sua vita presente. Sulla base delle circostanze oggettive e personali indicate, possiamo comprendere che, quando Sylvia Plath dice “le deludo”, intende affermare che, al suo cielo da sogno, fatto di sentimento e ragione, contrappone un senso di sconforto e di sofferto disinganno.

Questo lo stato emotivo che la genialità di Sylvia Plath filtra con maestria in un “tratteggio” paesaggistico, lasciando supporre che tra le “colline (che) sconfinano in bianchezza” una pecora,allontanandosi, si sia smarrita nella nebbia. In effetti, nessun passo è stato fatto, la Pecora nella nebbia (Sylvia Plath) è bloccata e stordita dall’impossibilità di discernere nell’oceano di idee che si sovrappongono senza soluzione. Un immobilismo di fondo la schianta al suolo, le vieta di distinguere un segno e di scegliere un colore sulla “tavolozza” di un cielo decaduto.

In questo stato d’insolvenza, “il treno” (la vita) di Sylvia Plath mostra ancora “una linea di respiro”, il respiro di un cuore che batte debolmente, perché il suo sangue non è più d’intenso vivo. Il suo cuore sta esaurendo l’energia per consentire alla sua umana sostanza di correre libera nelle praterie: il suo muoversi è simile a quello di un “treno” che lentamente fuma, come se carboni e legna stiano consumandosi nella caldaia. Altra similitudine è quella compresa negli zoccoli di un “cavallo colore della ruggine”: sembra di vedere un sentiero scosceso, ricoperto da falsipiani che non risuonano di un vivo calpestio, ma di un tonfo – suono di “dolenti campane”. 

L’aggrovigliarsi dei pensieri attanaglia e scuote, agita e inquieta Sylvia Plath, senza tregua; è tutto un incalzare di ansie, un crescendo drammatico che si addensa in nere ceneri, coprendo l’azzurro del cielo, “per tutta la mattina la mattina si è andata annerendo”. Nessun riflesso luminoso, solo opacità, null’altro che un livido pallore avvolge le “stanze” della sua anima, sfiancata, indebolita e stanca. Sylvia Plath è pervenuta alla consapevolezza che la vita è tinta di tetra solitudine e che, pur quando sembra reso tutto facile dal “filo di Arianna”, per uscire dal labirinto sotterraneo, che soffoca, l’unica possibile visione è quella di un cielo nero, terribilmente nero.

Sylvia Plath confusa, come una Pecora nella nebbia, si scontra con una realtà senza “appigli”, nella quale si registra l’assenza di punti di riferimento, di tracce da seguire per giungere ad una “terra promessa”, laddove seminare e raccogliere frutti di virtù e conoscenza. Nel deserto della realtà, il suo è divenuto un “fiore trascurato”, appassito, come se le sue radici non avessero potuto attingere fresche e limpide acque da nessuna celeste sorgente. Tale amara visione toglie forza e sostegno alla vita di Sylvia Plath: il mancato sostegno al corpo, frena il suo viaggio mentale. Similmente ad un cavallo prossimo alla morte, non può che accasciarsi, fissando quei “campi lontani”, sui quali avrebbe voluto librarsi in un volo di farfalla. La “distanza” umana tra il suo “cuore” e il mondo dell’ “Oltre” è incolmabile. Sylvia Plath può solo versare lacrime di sangue: amare e dense stille che formano una bruciante pioggia torrenziale, una pioggia che travolge la Pecora nella nebbia con il suo carico di dolore e pena. Fiotti di lacrime si mescolano in un’onda mostruosa che si avvicinano per versarsi nelle balze di “un cielo senza stelle”, – vastità d’oscuro abisso. Sylvia Plath si scontra con un mondo sotterraneo, l’Ade, dove non risiede Dio; è un mondo di acque fangose, appiccicosa melma che dilania la mente e il cuore, offuscando le luci di un probabile desiderato faro.

Dipartimento di Lettere e Filosofia, prof. Ciro Sorrentino

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