Papaveri in ottobre // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

Papaveri in ottobre // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

Nemmeno le nubi assolate
possono fare stamane gonne così.
Né la donna in ambulanza,
il cui rosso cuore
sboccia prodigioso dal mantello –

Dono, dono d’amore
del tutto non sollecitato
da un cielo che in un pallore di fiamma
accende i suoi ossidi di carbonio,
da occhi sbigottiti e sbarrati sotto cappelli a bombetta.

O Dio,
chi sono mai io
da far spalancare in un grido
queste tarde bocche
in una foresta di gelo, in un’alba di fiordalisi.

27 ottobre 1962, Sylvia Plath

(traduzione di Giovanni Giudici)

Papaveri in ottobre // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

Sylvia Plath – Per l’analisi di Papaveri in ottobre ci sembra giusto fare un breve accenno alla simbologia dei papaveri che, secondo la mitologia greca, sono considerati i fiori della consolazione. Si racconta che Demetra, dea della Terra, disperata per il rapimento della figlia Proserpina, da parte di Plutone, trovi sollievo in un infuso di papaveri. In seguito, Giove convince Plutone a lasciare che Proserpina, ogni sei mesi, possa tornare sulla terra. Così, quando la giovane riappare, sbocciano i papaveri il cui rosso colore ricorda alla dea la passione dello sposo che l’aspetta negli inferi.

Questa la simbologia dei papaveri che si associa bene all’inciso “dono d’amore”, un “dono” necessario per impedire che la terra resti desertificata e morente: si avverte la necessità di rinascere nei papaveri per ricondursi alla scoperta della verità mitica e primordiale del mistero della creazione. Perché ciò sia possibile, Sylvia Plath sa che deve porsi in maniera differente rispetto al tempo, ed ecco che allora i papaveri, annullando le stagioni, fioriscono in “ottobre”, come prodigiosamente animati.

Attenendosi alla singolarità del testo, in Papaveri in ottobre Sylvia Plath rivolge la sua attenzione agli aspetti della natura, della società, dell’infinito. Si leggano i primi versi, “nemmeno le nubi assolate”: il richiamo agli elementi naturali è oggettivamente esplicitato dalle “nubi” e dall’astro che le rende “assolate”. Ma, a stimolare la riflessione, è il sottaciuto vento; e non potrebbe essere altrimenti, perché il vento, sollevando e scuotendo, abbassando e agitando, assegna alle “nubi” sembianze sempre diverse. Nel caso specifico, il vento fa assumere alle “nubi” l’aspetto di “gonne” che danzano.

In riferimento all’aspetto sociale, esso viene subito rapportato all’ “ambulanza”, ad un veicolo, creato per soccorrere chi necessita di aiuto e, nella fattispecie, “la donna in ambulanza” di cui quasi vediamo e sentiamo pulsare il “rosso cuore”, nonostante sia coperta “dal mantello”. Dunque, su quel lettino di “ambulanza” c’è qualcuno che sta lottando tra la vita e la morte, qualcuno che sta provando una metamorfosi in quel cuore che “sboccia prodigioso dal mantello”.

Ma più degli altri, è l’aspetto dell’infinito a essere messo in risalto dalla preghiera a Dio, un Dio invocato per determinarsi come entità. Di certo, l’estasi di Sylvia Plath è talmente straordinaria da elevare il suo pensiero oltre la natura e gli uomini, entrambi enti finiti che non possono partecipare alla totale percezione del Miracolo della rinascita. Si tratta di una fioritura di papaveri che è una rinascita inaspettata, perché fuori stagione, quasi che il tempo umano sia stato rimescolato da forze divine. Prova ne sia che siffatti papaveri in ottobre sono un “dono d’amore” per la natura, per gli “occhi” degli uomini, per il “cielo”.

Da notare come la natura sia avvolta dalle “un pallore di fiamma” e come gli uomini abbiano “occhi sbigottiti e sbarrati sotto cappelli a bombetta”. Dunque, la piatta calma del mondo, il grigiore dell’autunno, la monotona esistenza degli uomini sono scompaginati da un fattore inatteso, perché non programmato, né dalla natura, né dagli uomini. Si tratta di un evento speciale, che stravolge la regolarità dell’esperienza: esso accade improvviso al sorgere del sole, “stamane”, quando Sylvia Plath viene colta da tanto stupore che può dire “O dio, chi sono mai io…”. Dunque, in un orizzonte visivo che ogni giorno appare come “una foresta di gelo”, come un inestricabile labirinto di alberi avvolti e piegati dal “gelo” (un “gelo” che è metafora d’umana indifferenza), “queste tarde bocche” si sono animate, sventolando come “gonne” di una donna che lancia il suo “grido”, per dire del suo essere al mondo, consapevole di quanto avviene e succede intorno a lei.

Ancora una volta, emerge lo scontro con lo squallore della vita, e l’inespresso dolore viene proiettato in quei papaveri in ottobre. Ed è così che Sylvia Plath dichiara di esserci, di saper guardare oltre la linearità dell’esperienza, perché un “dono d’amore”, un fatto nuovo e impensabile può accadere in un giorno che, invece di restare uguale agli altri, si è aperto a circostanze altre, ad una diversa percezione e comprensione degli eventi.

Dipartimento di Lettere e Filosofia, prof. Ciro Sorrentino

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