Medusa // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

Medusa // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

Là da quel promontorio di sassi tappabocca,
occhi-palla da bianche mazze giocati,
orecchi tesi alle incoerenze del mare,
tu alberghi la tua snervante attesa –
globo oculare di Dio, lente di compassioni,

e i tuoi accoliti fanno lavorare
le loro pazze cellule all’ombra della mia chiglia,
pulsanti come cuori,
rosse stigmate proprio al centro,
correndo il risucchio al più vicino punto di partenza,

tirando i loro capelli alla Gesù.
L’ho scampata? Mi domando.
La mia mente volge a te
vecchio ombelico incrostato, cavo atlantico,
che si conserva, sembra, in un miracoloso buonostato.

Sei sempre là, in ogni caso,
tremulo fiato al limite della mia linea,
curva d’acqua sprizzante
alla mia verga di rabdomante, radiosa e grata,
che tocca e succhia.

Non t’ho chiamata.
Non ti ho chiamata proprio.
Eppure,
eppure via mare a me sei arrivata,
grassa e rossa, placenta

che paralizza i riottosi amanti.
Luce di cobra
che alle sanguigne campane della fucsia
spreme il fiato. Non potevo prender fiato,
morta e senza un quattrino,

sovraesposta, come un raggio X.
Chi credi mai di essere?
Ostia da comunione? Madonna addolorata?
Non prenderò un boccone del tuo corpo,
bottiglia nella quale io vivo,

Vaticano spettrale.
Questo sale bollente mi nausea da morire.
Verdi eunuchi,
le tue brame fischiano ai miei peccati.
Vade retro, anguilloso tentacolo!

Non c’è niente fra noi..

16.10.1962, Sylvia Plath

(traduzione di Giovanni Giudici)

Medusa // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

In “Medusa”, le gelide atmosfere d’ apertura scoprono un variato registro espressivo che, sul piano poetico e stilistico, fonde elementi mistici e mitici (i “capelli alla Gesù” e il “cavo atlantico”), ad elementi realistici (il “promontorio di sassi”), per suggellare, infine, il tutto nella rappresentazione degli aspetti psicologici (“tu alberghi la tua snervante attesa”). In tale quadro espressivo, e nella dinamica emozionale che sottende l’ispirazione del poeta, assume forza e significato il simbolismo delle “pazze cellule”: è un turbinio di pensieri che rievoca il bisogno interiore di essere e autodeterminarsi nel fluire dell’esistenza. Sono le “pazze cellule” strumento salvifico che permette a Sylvia Plath di sfidare le forze oscure dell’esistenza, di affrontare le difficoltà del suo viaggio, di immergersi nel logos dell’universo. E dall’alto del suo doloroso vissuto percepisce e trova, come capita al “rabdomante”, un “tremulo fiato”, il palpitante sussulto nella “curva d’acqua sprizzante.

La “verga di rabdomante, radiosa e grata, che tocca e succhia” prevede ed ipostatizza un movimento, la necessità di compiere un viaggio di ricerca interiore e di riflessione sul significato dell’esistenza. In questa prospettiva, i suoi ricordi, così “pulsanti come cuori”, diventano simbolo di un contatto profondo, intimo e diretto con la natura, e, sul piano ontologico, di comprensione e partecipazione ad un’esperienza-viaggio definitiva dell’Oltre. Questa volontà di partecipazione viene subito confermata dall’inciso “rosse stigmate proprio al centro, correndo il risucchio al più vicino punto di partenza”. Siamo di fronte a una versatile metafora della conoscenza e della necessità di governare il tempo quotidiano della vita, un tempo che troppo in fretta passa dalla luce del giorno alle ombre della sera, e, infine, alla solitudine della notte dove non si riesce a “prender fiato, morta e senza un quattrino, sovraesposta, come un raggio X”.

Per fornire una corretta analisi di “Medusa” è necessario capire subito quale sia la prospettiva da cui Sylvia Plath si dispone al dialogo poetico e quali e quanti siano gli interlocutori da lei immaginati. A nostro intendimento, il riferimento al mito greco mette in evidenza almeno tre proiezioni del sé. Così, da una parte, abbiamo la Sylvia Plath poeta che dà voce alle sue emozioni e ai suoi pensieri, dall’altra c’è l’essere tradito dalla vita, per ultimo appare l’io sociale trasformato e appesantito dalle mostruosità del tempo nello spazio limite e deformante della vita sociale.

Ma focalizziamo subito l’attenzione su quel “globo oculare di Dio” che è la stessa Sylvia Plath in quanto spiritualità travolta dalla vita e che, seppur scaraventata “Là da quel promontorio di sassi tappabocca”, possiede ancora la capacità di proiettarsi oltre e di vedere con i suoi “occhi-palla da bianche mazze giocati”. È manifesto nell’intero periodo il sotteso richiamo alla semplice naturalezza del gioco, al candore degli strumenti usati, le “bianche mazze”, alla perfezione circolare di quegli “occhi-palla”, agli “orecchi tesi alle incoerenze del mare”, “orecchie” che ascoltano e sanno ascoltare la mobilità delle acque, le molteplici possibilità nelle “incoerenze del mare”; “incoerenze” che, a ben giudicare, si rivelano positive manifestazioni di dissenso verso il monotono scorrere di un incolore tempo nella infinita vastità bruciata.

Dunque, Sylvia Plath, in quanto “globo oculare di Dio”, sa ancora vedere e sentire, sa che dentro di lei, in “snervante attesa”, fervono i suoi “accoliti”, i ricordi e i pensieri che, come “pazze cellule”, sono in tumulto “all’ombra della mia chiglia”. Emozioni forti che sorgono da memorie e riflessioni, esperienze che ancora vivono e fremono, “pazze cellule” sfuggite ai soprusi della vita, fantasmi che si agitano e riaffiorano, riportando in superficie le ansie, le inquietudini, le pulsioni di un’infanzia felice e lontana. È chiaro, quindi, come l’invettiva di Sylvia Plath sia contro l’esperienza della storia umana che inibisce l’essere, costringendolo a dimenarsi nelle acque torbide melmose di una palude. Si tratta di un mondo di rigide convenzioni, basato sull’ordinarietà delle leggi razionali che violano ogni condizione di primitiva innocenza.

Fatta salva tale imprescindibile premessa, si può discutere dei riferimenti al mito greco e parlare di “Medusa”, la fanciulla-ancella di Athena condannata dalla Dea senza altra colpa che quella di aver perso la verginea purezza a seguito di una violenza sessuale. La condizione di “Medusa” è quella di una giovane donna, incolpevole vittima che subisce un ingiusto torto da un mondo cui lei aveva affidato i suoi sogni; di conseguenza i suoi credi religiosi e sociali franano e si rivoltano contro la sua anima. Grandiosa metafora ripresa da Sylvia Plath per dire di come ancora oggi la coscienza dell’essere si ritrovi tradita dalla vita e dalle presunte fedi che, in varia forma, sono stupidamente edificate e glorificate. Sylvia Plath assimila se stessa alla figura gorgonica di “Medusa” per esorcizzare l’angosciosa inquietudine di una vita lacerata e travolta da luci spettrali, da silenziose ombre che pietrificano e agghiacciano l’essere. Ma il processo di identificazione con Medusa non è fine a se stesso, perché Sylvia Plath va oltre il comune concetto di morte e, in essa, vi riconosce il principio dell’alterità assoluta, di un nuovo inizio oltre la soglia di un’esistenza sfigurata, corrotta e contaminata dall’esperienza umana che annichilisce il tempo della vita.

Di “Medusa” Sylvia Plath percepisce il dolore, la delusione e la furiosa indignazione, anche lei ha subito le prepotenti insensatezze di un’esistenza artefatta e dà voce al suo vissuto drammatico. I suoi ricordi sono “pulsanti come cuori, rosse stigmate proprio al centro”, nel mezzo cioè tra il passato e il presente, tra l’io interiore e l’io sociale, tra il volto e la maschera. Sono ricordi che generano un “risucchio al più vicino punto di partenza”, che rimandano alle dolorose cause scatenanti. Ricordi dolorosi, “stigmate” e piaghe che riaffiorano “tirando i loro capelli alla Gesù”, come a mostrare il volto ferito e sanguinante di Cristo. Ecco allora che il “vecchio ombelico incrostato”, il suo legame al passato “che si conserva, sembra, in un miracoloso buonostato”, si scopre essere duro e resistente come un “cavo atlantico”, una mostruosa catena che si stringe e si distende senza mai liberare definitivamente l’essere. Vita vissuta, tradita, sospesa, vita “Sempre là, in ogni caso, tremulo fiato al limite della mia linea”. Vita subita come tragica inclinazione del percorso di crescita, “curva d’acqua sprizzante alla mia verga di rabdomante, radiosa e grata, che tocca e succhia”.

Sylvia Plath non potrà mai obliare il passato perché è per natura portata ad analizzare, ad ascoltare e a dar voce a ciò che si agita nel suo substrato di esperienze e di tragica memoria. Ed è una dolorosa memoria, quasi una “placenta che paralizza i riottosi amanti”, una memoria che sospende gli irriducibili pensieri, che impedisce di andare oltre. Una memoria come “luce di cobra che alle sanguigne campane della fucsia spreme il fiato”, che al tramonto morde, avvelena, colpisce inesorabilmente, attraversando la mente e il corpo da parte a parte come “un raggio X”. Sylvia Plath vuole difendersi da questa memoria che si erge come un “Vaticano spettrale”, come tempio dell’oscurità e feroce trappola che vuole racchiuderla in una “bottiglia” (evidente il richiamo alla mistica del suo romanzo “La campana di vetro”). Ed è una memoria amara, un “sale bollente”, una presa di coscienza di quel che è successo e che “nausea da morire”. Sylvia Plath vede e sente tutto l’orrido putridume della vita, ripercorre il dolore per i desideri mai realizzati, caduti presto come “Verdi eunuchi” che “fischiano ai miei peccati”, sono aspettative ormai irrecuperabili che riacutizzano l’angoscia, la sofferta disillusione che le fa dire “Vade retro, anguilloso Tentacolo! Non c’è niente fra noi”.

Dipartimento di Lettere e Filosofia, prof. Ciro Sorrentino

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