La luna e il tasso // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

La luna e il tasso // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

Questa è la luce della memoria,
fredda e planetaria.
Neri sono gli alberi della memoria,
azzurra la luce.
L’erba riversa ai miei piedi,
quasi io fossi Dio,
le sue pene, pungendomi le caviglie
e mormorando umiltà.
Fumosi,
spiritali vapori
abitano questo luogo
che una fila di lapidi
separa dalla mia casa.
Insomma,
non riesco a vedere il posto che ci aspetta.

La luna non è una porta,
ma precisamente una faccia
bianca come una nocca
e terribilmente sconvolta.
Attira il mare
come un buio delitto,
tranquilla nell’O
della sua bocca
spalancata e disperata.
Io abito qui.
La domenica due volte
squassano il cielo le campane –
otto lingue clamanti Resurrezione.
Placate,
infine scandiscono i loro nomi.

Il tasso punta in su,
ha un profilo gotico.
Gli occhi
seguendolo
trovano la luna.
La luna è mia madre.
Non è dolce come Maria.
Le sue azzurre vesti
sprigionano
pipistrelli e civette.
Come vorrei credere nella tenerezza –
Il volto dell’effigie,
ingentilito da candele,
chino proprio su me,
i miti occhi.

Fu lunga la mia caduta.
Le nuvole fioriscono
azzurre e mistiche
sulla faccia delle stelle.
Dentro la chiesa,
saranno tutti azzurri i santi
che sfiorano
coi teneri piedi
i freddi banchi,
le mani e le facce rigide di santità.
Niente di ciò vede la luna,
è vuota e desolata.
E il messaggio del cipresso
è nerezza –
nerezza e silenzio.

22.10.1961, Sylvia Plath

(traduzione di Giovanni Giudici)

La luna e il tasso // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

La luna e il tasso – In La luna e il tasso Sylvia Plath rivede e analizza il film della sua vita: ogni fotogramma rimanda immagini scarnificate del passato, sono tasselli di spiritualità che sfuggono agli incastri del tempo umano nello spazio terreno. Pertanto, nella vastità imponderabile dell’infinito, gli stessi ricordi sono sterili riverberi di vita, una vita che va compresa nella geometria salvifica dell’assoluto cosmogonico. Sylvia Plath è ormai pervenuta alla coscienza del tutto-nulla, la sua anima si è congiunta al Logos, in una silenziosa e raccolta contemplazione delle armoniose simmetrie cosmiche. Così, dall’alto della sua saggia lungimiranza, può affermare con serenità “Questa è la luce della memoria, fredda e planetaria”. Nell’ “azzurra luce” dell’universo, la sua mente scopre e comprende gli imperscrutabili segni della spiritualità, quella  circolare e arcana perfezione che è eterno moto dello spirito. E, negli “alberi della memoria”, per quanto siano “neri”, ritrova la necessaria tensione ad assimilarsi all’Altrove. Sono spinte motivazionali che accelerano la voglia di allontanarsi da una storia umana che avvilisce e confonde la percezione del senso e del significato proprio del vivere. La mente ormai è proiettata oltre le umane possibilità, e corre veloce all’ignota linea del mistero cosmico. Per tali ragioni, nelle istanze poetiche di La luna e il tasso, Sylvia Plath dichiara di voler liberarsi dai pesanti vincoli di un tempo che opprime e costringe ad una miserevole ed incolore esistenza.

Il tema fondamentale di questa poesia è contenuto già nel titolo, La luna e il tasso, laddove “La luna” sta per apertura all’infinito e “il tasso” per dimensione secolare ed altra. Traspare, dunque, un senso di profonda riflessione dell’essere che, acquisita coscienza del tramonto di ogni terrena illusione, si ritrova nell’assolutezza dell’eterno divenire, oltre il disorientamento di un’esistenza che annienta lo slancio vitale dell’essere. Così, assimilata alla magnificenza dell’universo, Sylvia Plath può dire:L’erba riversa ai miei piedi, quasi io fossi Dio, le sue pene, pungendomi le caviglie e mormorando umiltà”. E proprio l’erba, in quanto simbolo di crescita ed evoluzione, si scopre l’elemento che rappresenta l’energia vitale dell’anima, l’essenza spirituale mai soggiogata dall’esperienza. Erba come fioritura dello spirito, singolarità di un sorprendente processo che trascende l’inerzia di quel tempo-vita in cui annega la speranza e si leva il dolore. Erba come specchio dell’anima che va “mormorando umiltà”, chiedendo semplicemente una possibilità: e sono “le sue pene” a liberarla, ed è tutto suo il dolore di Cristo, sua l’inquietudine che mostra la necessità di sfuggire alla voragine dei dolorosi pensieri.

In La luna e il tasso, per Sylvia Plath la vita terrena è precipitata in un baratro senza fondo, nell’incolmabile distanza che separa cielo e terra, laddove rabbrividiscono i giorni, mentre vibrano le povere emozioni tra sinistri cerchi e vorticose onde. Ecco allora che soltanto “Fumosi, spiritali vapori abitano questo luogo che una fila di lapidi separa dalla mia casa. Insomma, non riesco a vedere il posto che ci aspetta”. Si faccia attenzione al plurale “ci aspetta” utilizzato a fine verso e quasi dissimulato, un plurale specificamente indicativo del fatto che Sylvia Plath, in quanto corpo dotato di occhi per vedere, parla anche in nome della sua essenza interiore, della sua spiritualità, una spiritualità turbata da “Fumosi, spiritali vapori”, vacue ombre che impediscono la visione e la percezione dell’Oltre. In La luna e il tasso un esorbitante dolore sopravanza sulla desolata riva che sembra far da sponda alle correnti di un fiume da cui emergono fredde “lapidi” come lastre taglienti. Si avverte l’incedere di una disarticolazione del reale che nulla concede e tutto irride, è un tempo storico che smantella ogni probabilità di allontanare il vuoto che irretisce l’essere. Quella che si condensa in La luna e il tasso è una visione prospettica della tragica condizione esistenziale dell’uomo, prigioniero nel tempo della realtà che origina un salto nel buio dell’indistinto, in una digressione che nega ogni possibile empatia con la scienza del tutto.

Sylvia Plath ha percorso senza timore gli spazi abissali dell’oscurità, la sua cometa ha compiuto il giro della vastità eterna ed ora sa che “La luna non è una porta ma precisamente una faccia”. Dall’alto della sua scienza del tutto, sa che la vita è sospesa, ferma in una terribile immobilità, appesantita dal corpo, greve zavorra che oblia la capacità di vedere oltre il velo delle parvenze. E, di fronte a tanto orrore, la sua faccia diventa come quella della Luna “bianca come una nocca e terribilmente sconvolta”. Nel suo essere simile alla Luna e con la lungimiranza profetica di una dea, spinta da pacato distacco, fissa l’inerte vuoto del “mare”, vastità sospesa di emozioni e pensieri, vita che si consuma nell’agonia di “un buio delitto”.

Per quanto detto, siamo convinti che Sylvia Plath stia provando una chiave per aderire, in una luce di accordi musicali, all’armonia universale dell’Oltre; e questa tensione è tanto più vera quanto più velata in un preciso inciso, “Io abito qui”. È un fatto che la sua dimora è a mezza strada tra la terra e il cielo, ed è come sospesa sulle lancette del tempo; ma nessuna illusione può stravolgere e pietrificare i suoi pensieri e tutto suo è il dubbio amletico, onda di sangue e soffio dell’anima, che la libera dalle balze delle insignificanti certezze. Così, pacatamente fissa l’alveo disfatto del mondo e quasi ne sorride, sorride delle effimere luci, che spietatamente nascondono il silenzio dei morti, le urla e le stridenti voci. La vita è un paesaggio squallido e solo l’immaginazione libera sorprendenti sogni, quando sente il rintocco di “Otto lingue clamanti Resurrezione. Placate, infine scandiscono i loro nomi”. Nella bruma dei pensieri che s’attorcigliano, Sylvia Plath sente una voce nel fondo, è un’acredine, la certezza del giorno che cade trapassando alla prossima oscurità, ma è un’acredine che le consente di sopravvivere nella nuda roteante vertigine, presagendo la “Resurrezione”, quando “La domenica due volte squassano il cielo le campane”.

E a simboleggiare la “Resurrezione” ecco innalzarsi l’albero del tasso che, per la longevità, la verticalità e le foglie perenni, indica l’accesso all’eterno ciclo di morte e rinascita. I versi che seguono ruotano intorno alla figura del “tasso” che “punta in su, ha un profilo gotico”, rigido e inflessibile, del tutto contrapposto alla breve e confusa ebbrezza del tempo umano. E come il “tasso”, Sylvia Plath rivolge il suo sguardo “in su” per superare i limiti del tempo, per emanciparsi dal doloroso e contraddittorio esistere e accedere all’Oltre verso cui tende. Così i suoi “occhi seguendolo trovano la luna”, e, dunque, la speranza di potersi sottrarre al buio della realtà, aderendo ad un’epifania ineccepibile ed assoluta. Emerge la tensione e la volontà di salvarsi dalla distruzione e dal silenzio; così al “volto dell’effigie si accompagna il sentirsi figlia della Luna, in un movimento di accennata preghiera per “Maria” e di risalita verso quelle “azzurre vesti” che “sprigionano pipistrelli e civette”. E sono pipistrelli e civette” che, in quanto simboli della Grande Madre-Luna e segni distintivi di profetica divinazione, vengono utilizzati da Sylvia Plath per aderire all’Altrove. Ecco quindi profilarsi la scelta salvifica nei colori di una visione: è un’alternativa di vita, un’opzione che si affida all’immaginazione, l’unico luogo intimo e segreto che nessuno può pretendere di distruggere. In tale Altrove prendono forma luci, colori e suoni, tutte le tensioni spirituali, morali ed affettive, che sono state negate da una storia umana che si costituisce come disarticolazione e quotidiano ossimoro.

Consapevolezza del vuoto esistenziale, dunque, e presa d’atto della disarticolazione del tempo nello spazio della vita, voce illuminata e raziocinante che può finalmente dire “Fu lunga la mia caduta”, il disfacimento delle maschere appiccicate dalla realtà sul candido volto dell’anima. Si tratta di un’alienazione voluta e di una scelta estraniante che emancipa l’io da ogni asservimento psicologico e morale. L’inciso  giustifica e avvalora tutto il discorso esistenziale, metafisico e intellettuale condotto da Sylvia Plath, in un crescendo di metafore ad incastro. Ne deriva che il termine “caduta” va letto nella sua doppia valenza, sia come lento precipitare dell’essere e crisi dell’io, sia quale scoperta e condanna delle circostanze di una storia umana che prevarica la libera espressione dell’individuo. Quanto al predicato utilizzato al passato, in quel perentorio “Fu”, Sylvia Plath scopre di aver terminato il suo viaggio di conoscenza, di aver acquisito una lucida visione delle esperienze trascorse, e ora le può misurare con equilibrio e saggezza. Ed è un ordine mentale che si consolida nella successiva forma verbale utilizzata al presente, in quel dire “Le nuvole fioriscono azzurre e mistiche sulla faccia delle stelle”. Le sue idee sono autentiche epifanie dell’Oltre, e fanno da specchio ad un tempo che si espande negli spazi infiniti dell’eterno, sono visioni “azzurre e mistiche”, emotivamente sentite ma razionalmente ponderate, visioni che proiettano la sua anima nella pulsante energia delle “stelle”. Così da un passato di tristi memorie, Sylvia Plath perviene ad un presente similmente triste, ma coscientemente vissuto e non subito; si proietta infine nel futuro con la certezza che non avverranno miracoli, perché saranno “tutti azzurri i santi”, tra “freddi banchi”, gelidi scanni in chiese e cattedrali abbandonate dagli uomini. Si avverte l’auspicio che tutti possano sentire la sua stessa tensione interiore, rifiutando le chimere di una falsa mistica religiosa, del tutto opposta all’imperitura e totale perfezione, autenticamente espansa nell’immensità di quel cosmo che è Dio. E, di fronte allo squallido spettacolo che si consuma nell’esperienza umana, con lo stesso distacco della “luna”, Sylvia Plath, che si sente parimenti “vuota e desolata”, non si abbandona, né si lascia condizionare da “Niente di ciò che vede”. Ne consegue che proprio il vuoto salva la sua anima “desolata”, così sola e dimenticata, voce profetica che grida, rimanendo inascoltata, una verità sempre ignorata perché troppo sconcertante: “E il messaggio del cipresso è nerezza – nerezza e silenzio”.

Nella chiusa finale di La luna e il tasso, nell’immagine del “cipresso”, emblema d’immortalità, Sylvia Plath fa rientrare aspirazioni emotive, teologiche e culturali. È un “messaggio” salvifico che, in flussi di “nerezza e silenzio”, comprende ed ingloba i bisogni e le ragioni profonde dell’essere, le urgenze del suo spirito. Bisogni e urgenze primari dell’io che, per sentire e non subire la vita, presta attenzione alle esigenze spirituali che dispongono a un contatto diretto con la natura umana e con Dio. Questa condizione di riappropriazione del sé la spinge oltre la realtà finita e limitata dell’esperienza, nella dimensione imperitura dell’eterno. Di fatto, Sylvia Plath elegge “nerezza e silenzio” a custodi dell’integrità del divino, emancipandone la sostanza dalle angosce e dalle inquietudini di una vita che troppe volte, più che serenità, dispensa apprensioni e sofferenza. Ed è uno status di predizione immaginifica che le consente di riconoscere e condannare il peso di una realtà disarticolata che vieta di sentire la presenza di Dio, quel Dio che si espande come “nerezza e silenzio”.

Dipartimento di Lettere e Filosofia, prof. Ciro Sorrentino

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