Essere // Nick e il candeliere // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

Essere // Nick e il candeliere // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

Sono un minatore. La luce brucia azzurra.
Ceree stalattiti
gocciano e si ingrossano, lacrime

che il ventre di terra
trasuda dal suo tedio mortale.
Neri aliti di pipistrello

mi avvolgono, scialli cenciosi,
freddi omicidi.
Mi si saldano addosso come prugne.

Vecchia caverna di ghiaccioli
di calcio, vecchio antro d’echi.
Perfino i tritoni sono bianchi,

quei bacchettoni.
E i pesci, i pesci –
Cristo! Sono lastre di ghiaccio,

una morsa di coltelli,
una religione
piranha, che beve

la sua prima comunione dai miei piedi vivi.
La candela
riprende con un singulto la sue breve altezza,

i suoi gialli si rincuorano.
Oh amore, come sei arrivato fin qui?
Oh embrione,

che perfino nel sonno ricordi
la tua posizione in croce.
Il sangue fiorisce puro

in te, rubino.
Il dolore
a cui ti svegli non ti appartiene.

Amore, amore,
ho abbandonato la nostra caverna di rose,
di morbidi tappeti –

residui vittoriani.
Precipitino pure le stelle
al loro oscuro indirizzo,

gli atomi di mercurio
paralizzanti gocciolino pure
nel terribile pozzo,

tu sei l’unico
solido su cui gli spazi si appoggiano, invidiosi.
Sei il bambinello nella stalla.

Sylvia Plath 29 ottobre 1962
(traduzione di Giovanni Giudici)

Essere // Nick e il candeliere // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

Essere => Il titolo della poesia si riferisce al secondogenito Nicholas, ma l’analisi del testo rivela ancora una volta come l’occasione reale sia solo lo spunto per una riflessione sulle sensazioni dell’essere più profondo. L’apertura è categorica “sono un minatore”, sono cioè un essere nascosto e recondito che si aggira nelle caverne senza trovare una via di scampo, quasi fosse condannato a restare per sempre in quel limbo sotterraneo, dove “La luce brucia azzurra” e gelida. Ed è in questo antro tenebroso e freddo che l’essere si abbandona al pianto: sono lacrime amare e disperate che “gocciano e si ingrossano” come “Ceree stalattiti”, in un “ventre di terra” dove impera un “tedio mortale”.

In questa putrida afa sotterranea, il respiro si fa pesante, “neri aliti”, affanni e sofferenze “avvolgono” l’essere di Sylvia Plath in un “vecchio antro d’echi”, “echi” che fanno riaffiorare e rimbalzare ricordi e sogni perduti. In tale mondo sotterraneo, acquatico, riempito da un mare di “lacrime”, anche “i pesci Cristo! Sono lastre di ghiaccio”, cioè ogni pensiero diventa una riflessione amara e dolente, “una religione piranha”, una falsa chimera, dunque, che cattura e blocca il libero arbitrio dell’essere, attorcigliandosi ai suoi “piedi vivi”.

Il tempo dell’essere, è dato dalla “candela” che “riprende come un singulto la sua breve altezza”, una boccata d’ossigeno sembra ravvivare e rasserenare la visione della vita. Il respiro si fa calmo e regolare, e Sylvia Plath, rivolgendosi al suo essere profondo, con il quale ha un attimo di fusione e comunicazione, può dire “Oh amore, come sei arrivato fin qui?”, in queste recondite oscurità, in questo abisso dove nessuno ascolta? Si tratta di un amorevole “embrione” che è perseguitato come Cristo “in croce”, un Cristo morente con il capo reclinato. Sempre in questo processo di comunione tra l’essere interiore e l’essere sociale, Sylvia Plath può dire “Il dolore a cui ti svegli non ti appartiene”, le sofferenze procurate dalla Storia e dal vissuto personale non devono contaminare il “sangue” che “fiorisce puro in te, rubino”, non devono cioè corrompere il candore dell’essere, l’amore che germoglia spontaneo.​

Ecco spiegato perché dice “Amore, amore, ho addobbato la nostra caverna di rose”, ha preparato un luogo nascosto al mondo, all’esperienza che annichilisce e stordisce con false chimere. E sono le stesse chimere che, nella metafora delle “stelle”, si accingono sempre a condurre al “loro oscuro indirizzo”, alla fugace ed effimera felicità, dietro la quale si nascondono “gli atomi di mercurio paralizzanti”. La terra è, dunque, come un “terribile pozzo”, un mondo fittizio e vuoto in cui niente è certo, tranne che il proprio essere, “l’unico solido su cui gli spazi si appoggiano, invidiosi”. È un mondo simile a una voragine, una spirale dell’inconsistenza che vorrebbe fagocitare ogni pura essenza. Eppure questo mondo, contro il suo essere, non può vincere, perché esso è fatto della stessa sostanza divina del “bambinello nella stalla”.​

Dipartimento di Lettere e Filosofia, prof. Ciro Sorrentino

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