Canto del mattino // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

Canto del mattino // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

L’amore ti ha messo in moto come un grosso orologio d’oro.
La levatrice ti ha schiaffeggiato sotto i piedi
e il tuo nudo grido ha preso il suo posto fra gli elementi.
Le nostre voci echeggiano, esaltando il tuo arrivo. Nuova statua.
In un museo pieno di correnti, la tua nudità è ombra sulla nostra sicurezza.
Ti stiamo intorno vacui in viso come pareti.
 Non sono tua madre più di quanto lo sia la nuvola
che distilla uno specchio per riflettere
la propria lenta cancellazione per mano del vento.
 Per tutta la notte il tuo respiro di falena
tremola fra le piatte rose rosa. Veglio per ascoltare:
un mare lontano si muove nel mio orecchio.
 Un grido, e scendo dal letto incespicando, pesante come una mucca
e floreale nella mia camicia da notte vittoriana.
La tua bocca si apre pulita come quella di un gatto.
 Il riquadro della finestra s’imbianca e inghiotte le sue opache stelle.
E ora tu provi la tua manciata di note;
le vocali chiare salgono come palloncini.

19.02.1961, Sylvia Plath

(traduzione di Giovanni Giudici)

Canto del mattino // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

Sylvia Plath – In Canto del mattino Sylvia Plath rappresenta e fornisce una visione della perfezione d’amore che, in quanto espressione del soprannaturale, si espande a dismisura in ogni direzione, per un tempo indeterminato, astratto, inintelligibile. Per quanto detto, occorre fermarsi un attimo per riflettere sulla natura che Sylvia Plath attribuisce a questa distanza indefinita o tempo dell’assenza che si rapporta all’ “Assoluto”. Si tratta di un “tutto-nulla” che si determina, identificandosi nelle forme della realtà. Di fatto, l’ossimoro del “tutto-nulla” collassa su se stesso, precipita in un vortice che potremmo definire come la vertigine dell’assenza, dell’incoscienza, dell’assurdo e paradigmatico scoprirsi. L’ossimoro “tutto-nulla” rimanda al principio dell’imperitura “stasi nel buio” (“Ariel”) che prende forma e si sviluppa nell’attività del pensiero: dall’incoscienza colorata di nero, emerge un’essenza luminosa e pensante, una logica che si protende e cerca la perfezione. Nella visione di Sylvia Plath, Dio stesso supera ogni assenza/distanza e si rappresenta come l’ente che presiede ad ogni vero soffio d’amore. Il vuoto degli abissi viene riempito da un pianto che tutto travolge e purifica, è un “nudo grido”, un Canto del mattino, fatto di “vocali chiare” che “salgono come palloncini” e che prendendo “posto fra gli elementi”, donando acqua e respiro agli uomini.

A nostro avviso, riteniamo che, in Canto del mattino, Sylvia Plath abbia voluto descrivere uno stato d’animo che la assimila alla stessa condizione di Dio. Ne deriva un pianto infinito, lacrime e lacrime versate in solitudine, un pianto che, tuttavia, è liberatorio sotto il profilo psicologico ed emotivo. Precipitano stille di pena e si dissolvono come nuvole che si sgonfiano e spariscono dopo una tempesta. La conferma viene dal riferimento alla “nuvola che distilla uno specchio per riflettere la propria lenta cancellazione per mano del vento”. Così Sylvia Plath si ritrova a dialogare con la sua coscienza. Si riconosce senza veli, senza maschere posticce, si scopre leggera come una farfalla in una dimensione piena di sogni e di speranze, laddove “le vocali chiare salgono come palloncini”, oltre un orizzonte di “opache stelle”.

Nei versi di Canto del mattino Sylvia Plath, mentre esprime il suo bisogno di comprendere e superare i limiti dell’indecifrabile vita, scopre la difficoltà di sottrarsi ad una prevaricante realtà. Ed è questa comprensione che le fa dire: “Nuova statua. In un museo pieno di correnti, la tua nudità è ombra sulla nostra sicurezza”. È una vergine “nudità” che desta e  libera da una realtà che tutti confonde nel dire – “Ti stiamo intorno vacui in viso come pareti”, come corpi privi d’ogni spontaneo sorriso. Quella pura “manciata di note”, che in un “respiro di falena tremola fra le piatte rose rosa”, è un “nudo grido” che desta dal torpore, spingendo a sentire il brusio di “un mare lontano”. Un grido unico  ed  irripetibile che scopre irrequietezze e tensioni sconosciute: “Un grido, e scendo dal letto incespicando, pesante come una mucca e floreale nella mia camicia da notte vittoriana”. Questa “incrinatura” d’ogni sicurezza, “scendo dal letto incespicando”, procura all’individuo una condizione di alienante sconcerto: non c’è modo di sottrarsi alla disarmonia che tutto avvolge e schianta nell’abisso “destrutturante” del tempo. È in questa “cesura” che inevitabilmente “Il riquadro della finestra s’imbianca e inghiotte le sue opache stelle”. Sono frammenti di un cielo spento, inadatto ad ospitare il sogno, nel Canto del mattino che resta l’ultimo “argine” di consistenza.

Viene da chiedersi da dove sorga tanta “inconsistenza”. Sicuramente dobbiamo convenire che Sylvia Plath parte da un’indagine razionale i cui risvolti filosofici richiamano la ricerca di un “ubi consistam” sul piano ontologico e metafisico. La terra cui si riferisce Sylvia Plath, è come un pulviscolo cosmico, un bruscolino che sembra distanziarsi dalle stelle e dai corpi celesti che la circondano, è come se precipitasse nella voragine infinita ed incalcolabile degli spazi sconosciuti e misteriosi. C’è in Canto del mattino un “respiro” che insieme è fisico e trascendentale, una convergenza tra la spiegazione scientifica e l’irrisolvibile mistero del creato, che pone la terra nell’universo e ad esso l’allontana, come se qualcosa o qualcuno ne determinasse un’orbita sempre più dilatata e distanziata: è come se agissero sulle creature che la popolano due forze opposte quella forza centripeta e quella centrifuga, due opposte energie che, nell’esercizio delle loro “potenze”, sembrano lasciare l’uomo totalmente ed irrevocabilmente sconcertato. Di fatto l’individuo si ritrova perduto tra sentieri sconosciuti, vagamente determinati nell’orizzonte oscuro e offuscato di un cielo ignoto che smentisce ogni certezza. “In un museo pieno di correnti, la tua nudità è ombra sulla nostra sicurezza. Ti stiamo intorno vacui in viso come pareti”. Ecco, la mente ha perso finanche l’ultimo baluardo della pretesa conoscenza, la logica stessa è venuta meno, non c’è un filo logico che accompagni le scelte e il cammino tortuoso ed oscuro dell’essere, che resta terribilmente agghiacciato da un mondo strano e assurdo: un’assurdità che nasce enigmatica e che nei suoi labirinti trascina vorticosamente, annullando ogni probabile capacità di individuare una risposta o una soluzione che dia valore alla ricerca dell’uomo.

Sembra che su un vascello, perduto in balia di venti contrastanti, la persona sia vittima di un torturante destino che aliena ed estranea, e che lascia come interdetti e storditi, spiazzati a riconoscersi e ad individuarsi, almeno in un ente conosciuto e definitivo. Per questo individuo solo e disaiutato anche le stelle si sono infrante, “Il riquadro della finestra s’imbianca e inghiotte le sue opache stelle”, gli stessi sogni si sono perduti come risucchiati nelle fauci di un silenzioso buio, quasi proiettati al di fuori di ogni reale contesto. Le fantastiche stelle hanno perso il loro “peso” all’interno dell’immaginario poetico, sono petali alla ricerca di una matrice che li raccolga ed imprima in essi un nuovo codice che generi colori e tinte di nuove atmosfere e respiro d’amore. Si badi bene non sono questi fiori né rose, margherite o anemoni, o quant’altri boccioli in grado di simboleggiare un desiderio, sono piuttosto petali che vogliono definirsi “ex novo”, nella genuinità di un contatto, di un Canto del mattino che sia espressione e rappresentazione di una purezza che non è data cogliere nell’ordine delle cose e degli elementi conosciuti. La ricerca di Sylvia Plath conduce sicuramente ad ipostatizzare un universo parallelo e comunque una dimensione ignota alla quale, sebbene non se ne conoscano i limiti né le possibilità, vale comunque la pena abbandonarsi, se non altro per risollevarsi dall’omologazione e dall’appiattimento della coscienza. Ed è in questa dimensione “altra”, tra orbite diverse ed estranee, che il cuore pulsante della poetessa, nella lucida visione di un Canto del mattino, cerca una luce che rischiari il cielo e la terra, tra brezze saline e umide, cariche di sapori e delizie paradisiache. E con il carico di emozioni e tensioni, che spinge il suo corpo stanco – “scendo dal letto incespicando”, si avventura per le vie, ora buie, ora luminose, di una spirale cosmica, nella quale cerca affannosamente gli echi di un canto primordiale – Canto del mattino, un canto di “vocali chiare” che “salgono come palloncini”. Il cuore di Sylvia Plath sente l’urgenza di avvicinarsi alla “fonte” primordiale così da poterne cogliere le fragranze di purezza e d’amore, ormai inabissatesi nel mare dell’indolenza e dell’assenza, in un mondo che tutto sacrifica all’altare sacrilego e profano della vanità e dell’incoscienza.

Dipartimento di Lettere e Filosofia, prof. Ciro Sorrentino

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