Berck-Plage // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

Berck-Plage – Sylvia Plath 
(1)
Questo è il mare, dunque, questa grande sospensione.
Come fa affiorare la mia infiammazione, il cataplasma del sole.

Sorbetti dai colori elettrizzanti, che pallide ragazze
scucchiaiano dal gelo, viaggiano per l’aria in mani abbrustolite.

Perché questo silenzio, che cosa tengono nascosto?
Ho due gambe, mi muovo sorridendo.

Una sordina sabbiosa spegne le vibrazioni;
si stende per miglia e le voci rattrappite

ondeggiano, senza stampelle, dimezzate.
Le linee dell’occhio, scottate da queste superfici nude,

tornano indietro di scatto come elastici legati e fanno male.
C’è da stupirsi se lui si infila gli occhiali scuri?

C’è da stupirsi se ostenta una tonaca nera?
Eccolo che viene, tra i raccoglitori di sgombri

che gli fanno muro con la schiena.
Maneggiano le losanghe verdi e nere come parti di un corpo.

Il mare, che le ha cristallizzate,
ritrae strisciando tutti i suoi serpenti, con un lungo sibilo di angoscia.

(2)
Questa scarpa nera non ha pietà di nessuno.
Perché dovrebbe? è il feretro di un piede morto,

l’alto piede morto e senza dita di questo prete
che sonda il pozzo del suo libro,

le cui lettere curve si gonfiano davanti a lui come un panorama.
Osceni bikini si nascondono tra le dune,

seni e fianchi uno zucchero a velo
di piccoli cristalli che titillano la luce,

mentre una pozza verde spalanca l’occhio,
nauseata da ciò che ha inghiottito —

membra, immagini, grida. Dietro i bunker di cemento
due innamorati si scollano l’uno dall’altra.

Oh bianco vasellame del mare,
i sospiri dalle coppe, il sale nella gola…

E lo spettatore, tremante,
trascinato come una lunga stoffa

attraverso una virulenza immobile,
e un’alga, pelosa come pudenda.

(3)
Sui balconi dell’albergo c’è uno scintillio di cose.
Cose, cose —

sedie a rotelle di acciaio tubolare, stampelle di alluminio.
Che salmastra dolcezza! Perché dovrei spingermi

oltre il frangiflutti maculato di telline?
Non sono un’infermiera, bianca e assidua.

Non sono un sorriso.
Questi bambini cercano qualcosa, con uncini e grida,

e il mio cuore è troppo piccolo per bendare le loro colpe tremende.
Questo è il costato di un uomo: le sue costole rosse,

i nervi che esplodono come alberi, e questo è il chirurgo:
un occhio come specchio —

una sfaccettatura di conoscenza.
Su un materasso a righe in una stanza

un vecchio sta scomparendo.
La moglie in lacrime è impotente.

Dove sono le pietre dell’occhio, gialle e preziose,
e la lingua, zaffiro di cenere.

(4)

Una faccia che è una torta nuziale in una gala di carta.
E lui com’è superiore adesso.

È come possedere un santo.
Le infermiere nelle loro cuffie alate non sono più così belle;

si stanno scurendo come gardenie stropicciate.
Il letto è scostato dal muro.

Ecco cos’è l’essere completi. È orribile.
Ha indosso il pigiama o un abito da sera

sotto la stoffa incollata dalla quale il suo rostro incipriato
si leva con tanta bianca serenità?

Gli hanno puntellato la mascella con un libro finché non s’è irrigidita
e composto le mani che tremavano: addio, addio.

Ora le lenzuola lavate sventolano al sole,
le federe stanno arieggiando.

C’è da ringraziare il cielo:
la lunga bara di quercia color sapone,

i curiosi portatori e la data spoglia
che si incide nell’argento con calma meravigliosa.

(5)

Il cielo grigio si abbassa, le colline come un mare verde
corrono piega su piega in lontananza, celando i loro solchi,

i solchi in cui dondolano i pensieri della moglie —
barche tozze e concrete

piene di vestiti e cappelli, servizi di porcellana e figlie sposate.
Nel salotto della casa di pietra

una tenda guizza davanti alla finestra aperta,
guizza e fluisce, povera candela.

Questa è la lingua del morto: ricorda, ricorda.
Come è lontano ora, le sue azioni

intorno a lui come mobili di un soggiorno, oggetti di scena.
Mentre i pallori si radunano —

i pallori delle mani e delle facce del vicinato,
i pallori esaltati degli iris nel vento.

volano via nel nulla: ricordatevi di noi.
I banchi della memoria vuoti si affacciano su pietre,

su facciate di marmo con vene azzurre e vasetti di marmellata pieni di giunchiglie.
È così bello quassù: è un posto dove sostare.

(6)

La grassezza naturale di queste foglie di tiglio! —
Verdi palle scapezzate, gli alberi marciano verso la chiesa.

La voce del prete, nell’aria sottile,
accoglie il cadavere al cancello,

rivolgendosi a esso, mentre le colline spandono le note della campana a morto;
un luccichio di grano e terra cruda.

Che nome ha quel colore? —
Vecchio sangue di muri incrostati che il sole guarisce,

vecchio sangue di moncherini, cuori bruciati.
La vedova con la sua borsetta nera e le tre figlie,

necessaria tra i fiori,
ripiega il viso come una stoffa delicata

che non verrà più distesa.
Mentre un cielo, verminoso di sorrisi accantonati,

espelle una nuvola dietro l’altra.
E i fiori di sposa prodigano una frescura,

e l’anima è una sposa
in un luogo immoto, e lo sposo è rosso e immemore, senza lineamenti.

(7)

Dietro il vetro di quest’auto
il mondo vibra piano, isolato e mite.

E io sono vestita di nero e immobile, parte del corteo,
e scivolo in prima su per la salita dietro al carretto.

E il prete è un vaso,
una stoffa catramosa, squallido e spento,

al seguito della bara sul suo carretto fiorito come una bella donna,
un pennacchio di seni, palpebre e labbra

che prende d’assalto la cima del colle.
Poi, dal cortile sbarrato, i bambini

sentono l’odore del nero da scarpe liquefatto,
e i loro visi si girano, muti e lenti,

gli occhi si spalancano
su una meraviglia —

sei cappelli tondi e neri nell’erba e una losanga di legno,
e una bocca nuda, rossa e irregolare.

Per un istante il cielo si riversa nella fossa come plasma.
Non c’è speranza, è l’abbandono.

30.06.1962, Sylvia Plath
(traduzione di Giovanni Giudici)

30.06.1962, Sylvia Plath

(traduzione di Giovanni Giudici)

Berck-Plage // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

Berck-Plage (1) – In Berck-Plage (1), Sylvia Plath viene subito attratta dall’immensità del “mare”, da un’inesplorata ed ignota vastità in cui ogni logica precipita in una “grande sospensione”, come se il tempo e lo spazio fossero sostituiti da un immoto silenzio, da una sensazione di quiete nella quale e dalla quale porsi ad ascoltare le impercettibili vibrazioni di un mondo “Altro”. E a questa estasi, a questo estraniarsi dalla scomposta esistenza, si accompagna la luce del sole che suscita in lei una comprensione diversa e totale, così che la sua “infiammazione” è un moto di ribellione, un’accesa critica per quello che vede, per una vita che scivola nella generale piccolezza del mondo. Ed è un mondo in cui si aggirano anonime persone, le “pallide ragazze” che si esaltano solo per dei “sorbetti dai colori elettrizzanti” che finiscono nelle loro “mani abbrustolite”, mani incapaci di percepire e afferrare la verità dell’ “Assoluto”. Ecco allora che giunge la domanda perentoria e indilazionabile, “Perché questo silenzio, che cosa tengono nascosto?”, cioè quale verità viene obliata e negata a un mondo di uomini storditi e incapaci di agire. È una riflessione naturale per  Sylvia Plath che ha coscienza di essere e, infatti, può dire “mi muovo sorridendo”, si sposta cioè con le sue “due gambe”, prendendo libere decisioni, senza che nessuno condizioni o devi la sua ricerca del vero. Così Sylvia Plath si ritrova a lottare contro una “sordina sabbiosa”, contro un muro di apatica inconcludenza in cui precipitano “le vibrazioni”, i fremiti dell’anima, gli aneliti del cuore. È su questa insolvenza morale e intellettuale che si consuma inutilmente la vita di una misera folla di uomini, i cui pensieri si risolvono in “voci rattrappite” e contratte, “dimezzate” e svuotate di significato. “Queste superfici nude”, l’inconsistenza propria dell’oggettività le mostra uno squallido paesaggio, tanto che le sue “linee degli occhi”, restando “scottate e deluse”, si ritraggono disilluse con dolorosa sofferenza, “come elastici legati e fanno male”. Per difendersi da questa triste visione, Sylvia Plath immagina di mettere “gli occhiali scuri” del prete in “tonaca nera”, quel prete che avanza in un mondo che si ostina nella ripetitività delle azioni, in un mondo ormai ridotto alla robotizzazione dei gesti; è il caso appunto dei “raccoglitori di sgombri” che meccanicamente svolgono il loro lavoro. L’immagine finale del “mare” è emblematica, le acque si ritraggono, mentre ritorna ancora la “sospensione” iniziale; le onde si placano di fronte alla dura e pietrosa indifferenza di un mondo che non teme i “serpenti”, i dubbi o le perplessità dell’io: anche il “mare” rifugge l’ostinata inerzia degli uomini, quel che resta è solo un “lungo sibilo di angoscia”.

Berck-Plage (2) – In Berck-Plage (2), Sylvia Plath denuncia l’apatia e l’inerzia degli uomini, e lo fa rinvenendo nella “scarpa nera” l’assenza di movimento: si tratta, appunto, di una “scarpa” che, come “feretro di un piede morto”, contiene in sé finanche il piede inarticolato e paralizzato di un “prete”. E con questo, Silvia Plath vuole dire l’assenza di ricerca, l’incapacità di sapersi orientare verso la verità dell’ “Assoluto”. E seppure il prete sembra che sia immerso nella lettura “del suo libro” non giunge a nessuna verità, perché è una lettura non partecipata, una lettura declamata e celebrativa per un “panorama”, che è la folla sciocca ed arrogante sulla spiaggia. Non c’è autentica comprensione, e tra le “dune” di sabbia si affollano solo degli esibizionisti presi dalla loro vanità. Le loro “membra, immagini, grida”, così come le effusioni di “due innamorati”, sono uno spettacolo ripugnante (il “panorama” di cui sopra) per Sylvia Plath che “spalanca l’occhio, nauseata da ciò che ha inghiottito”, dalla mediocrità che ha visto. Poi rivolge lo sguardo alla trasparente vastità, al “bianco vasellame del mare, ai soffi che muovono la salsedine. E la vediamo in apprensione, attenta ed inquieta, immersa in quella infinita vastità. Come uno “spettatore tremante” è stravolta e turbata, quasi fosse una “stoffa” che, con aspra violenza,  viene tesa e allungata fino a raggiungere l’ “immobile” fissità del “mare”, laddove può unirsi all’ “alga” primordiale che accende la riflessione sulle origini della vita.

Berck-Plage (3) – In Berck-Plage (3), Sylvia Plath rivolge lo sguardo ad uno “scintillio di cose” che ricordano la sofferenza fisica. Le “sedie a rotelle” e le “stampelle” si caricano così di “salmastra dolcezza”; è un sovrapporsi di emozioni: sensi di breve sollievo si alternano a un duraturo tormento. Di fronte a questa difformità e disarmonia della vita, per lei è difficile ostentare un “sorriso. La sua attenzione va ai lamenti dei “bambini”, alle sofferenze di un “uomo”. E più di un “chirurgo”, che osserva per esaminare, lei è come un imperturbabile “specchio”. Osserva e vede come la vita va affievolendosi nel corpo di un “vecchio” assistito dalla “moglie in lacrime”. Tutta la poesia è l’immagine estenuante della vita e della morte che si replicano in una ciclicità infinita. Si tratta di una reiterazione angosciosa che si consuma di fronte a “uncini e grida” di “bambini”, ai “nervi” dell’ “uomo” in ospedale, davanti al “vecchio” morente. Da questi volti sono sparite “le pietre dell’occhio, gialle e preziose” per osservare e capire, gli stessi pensieri sono ormai pietra in frantumi, “zaffiri di cenere”.

Berck-Plage (4) In Berck-Plage (4), ancora la morte viene osservata su “Una faccia che è una torta nuziale”, preparata ad arte per la cerimonia commemorativa. Lo sposo morto ora ha un volto “superiore”, sembra quasi essere la figurina di un “santo” a cui chiedere di intercedere per comunicare con il mondo dell’ “Altrove”. Intorno al defunto, le “infermiere” si affaccendano con volti tristi, sembrano “gardenie stropicciate”. Tutto è pronto per l’occasione: “Il letto è scostato dal muro”, il “pigiama” è stato sistemato, “puntellato la mascella”, “composto le mani”. Ma la vita ha le sue priorità e riprende il suo corso sempre uguale; così “le lenzuola lavate sventolano al sole”, perché siano presto pronte per qualcun altro che deve trapassare la soglia della vita. Su questo scenario di “orribile” freddezza si apre “il cielo” che accompagna la misera “spoglia” nel suo viaggio, “con calma meravigliosa”.

Berck-Plage – (5) In Berck-Plage (5), il paesaggio è avvolto dal grigiore del cielo, mentre tra i “solchi” scuri delle “colline” vanno “i pensieri” di una donna che immagina “vestiti e cappelli, servizi di porcellana e figlie sposate”. Nella “casa di pietra” oscilla la fiamma della “candela” che è metafora della “lingua del morto”, di ciò che lui ha detto e fatto in vita. I conoscenti si “radunano” in comune costernazione, nei pianti che vengono trasportati come “iris nel vento”. È il momento in cui tutto finisce nel vuoto, i ricordi impietriscono e si sbriciolano, si decolorano e svaniscono. Fuori da questo mesto coro di voci, in accorta meditazione, Sylvia Plath avverte una calma che la sollecita ancora a “sostare”, a indugiare nelle sue riflessioni sulla correlazione vita-morte.

Berck-Plage (6) – In Berck-Plage (6), un sentiero fregiato di piante, ricolme di “foglie di tiglio”, si distende fino alla “chiesa” dove il “prete” aspetta il “cadavere” per celebrare la messa. Tutto intorno, nella freschezza di un’ “aria sottile” si spandono i rintocchi “della campana a morto”. Ancora una volta il pensiero va ad una vita che si è spezzata, così che il “luccichio di grano” ritorna alla “terra cruda”, la nuda terra-madre che riprende in sé il “sangue” dei “cuori bruciati”. Lo spettacolo è tristissimo, il “viso” della “vedova” sembra “una stoffa delicata che non verrà più distesa”, né ricoperta dalla spensieratezza. Lo stesso “cielo, verminoso di sorrisi accantonati”, così privo di luce e gioia si rannuvola. Intorno si avverte solo la “frescura” dei fiori che accompagnano “l’anima” ormai separata da un corpo senza “lineamenti” e identità.

Berck-Plage (7) – In Berck-Plage (7), Sylvia Plath proietta se stessa nel personaggio della vedova che segue il corteo funebre. Intorno “il mondo vibra piano, isolato e mite”, un mondo in cui la figura del prete contribuisce all’atmosfera di generale silenzio: anche i “bambini”, vedendo il corteo funebre, zittiscono e fissano quel “carretto” su cui si celebra quel misterioso evento che è il prodigio della morte. Ed è una morte che si riconosce nella croce, sotto la volta di un “cielo” che, per un attimo, sembra specchiarsi nella “fossa”. L’immagine di un cielo che implode potrebbe indurre a credere che, insieme al corpo, non ci sia speranza nemmeno per l’anima: non è così perché quel “plasma” celeste è spirituale vita per l’anima ormai svincolata dall’umano “abbandono”.

Dipartimento di Lettere e Filosofia, prof. Ciro Sorrentino

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