Arrivare là // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

Arrivare là // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

Quanto è distante?
A che distanza è adesso?
Le enormi interiora di gorilla
delle ruote avanzano, mi fanno spavento —
I terribili cervelli
di Krupp, musi neri
rotanti, il rimbombo
che sbotta: Assenza!, come il cannone.
È una Russia che ho da attraversare, una guerra.
Piano piano il mio corpo
trascino su una paglia di carri bestiame.
È adesso il momento per corrompere.
Cosa mangiano le ruote, queste ruote
fissate ai loro archi come iddii,
il guinzaglio argenteo del volere —
inesorabilmente. E che superbia!
Gli dei conoscono solo destinazioni.
Io sono una lettera infilata in questa buca —
volo a un nome, a due occhi.
Ci sarà un fuoco là, ci sarà cibo?
Qui c’è un tal fango!
È una stazione, le infermiere sotto un’acqua
di rubinetto, i suoi veli, veli di convento,
toccano i loro feriti,
uomini che il sangue ancora pompa in avanti,
gambe, braccia ammucchiate fuori
della tenda di lamenti interminabili —
un ospedale di bambole.
E gli uomini, quel che resta degli uomini
pompati avanti da questi stantuffi, questo sangue
dentro il prossimo miglio,
la prossima ora —
dinastia di frecce troncate!

Quanto è distante?
C’è fango sui miei piedi,
spesso, rosso e sguisciante. È la parte di Adamo,
questa terra da cui sorgo, e io in agonia.
Io non posso disfarmi e il treno sta sbuffando.
Sbuffando e sfiatando, i suoi denti
pronti a arrotare come quelli di un diavolo.
Manca un minuto alla fine
un minuto, un cadere di goccia.
Quanto è distante?
È così piccolo
il luogo dove sto andando, e perché questi ostacoli —
Il corpo di questa donna,
gonne incarbonite e maschera di morte
vegliato da pie figure e fanciulli in ghirlanda.
E adesso detonazioni —
tuono e cannoni.
Il fuoco ci separa.
Non c’è luogo tranquillo
che giri e giri a mezz’aria,
intatto e intoccabile.
Il treno si trascina, sta urlando —
animale
smanioso della sua destinazione,
macchia di sangue,
faccia sull’estinguersi del bagliore.
Seppellirò i feriti come crisalidi,
conterò e seppellirò i morti.
Si torcano le loro anime in una rugiada,
incenso sulla mia strada.
Dondolano i carri, sono culle.
E io, sgusciando da questa pelle
di vecchie bende, noie, vecchie facce

a te salgo dal nero carro di Lete,
pura come un’infante.

06.11.1962, Sylvia Plath

(traduzione di Giovanni Giudici)

Arrivare là // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

In “Arrivare là” Sylvia Plath utilizza un sottile incastro di metafore, non per raffigurare fatti e persone della storia, quanto per mimetizzare un messaggio cifrato, lasciando al lettore la facoltà di cogliere, nel magmatico fruire delle parole, l’enigma da lei affrontato e risolto. Nel succedersi dei versi si percepisce la volontà di nascondere nelle parole la chiave per accedere alla sua epifania dell’Oltre che si definisce ed assolutizza come conclusiva scoperta e chiara visione dell’Altrove.

La sua lungimiranza si traduce in un testamento poetico, in una profetica divinazione immaginifica: Sylvia Plath è alla fine del suo viaggio di ricerca, e rievoca, in un turbinio di versi, le spinte interiori e intellettuali che le consentono di vedere oltre le contingenze reali ed emotive, tanto che, nella sua capacità di razionalizzare, può dire “È una Russia che ho da attraversare, una guerra”. Dunque, Sylvia Plath ha coscienza che l’esperienza della vita si risolve in una “guerra”, in un dissidio tra l’io interiore e l’io sociale, in un contrasto che, tuttavia, lei risolve nella sua tensione psicologica e conoscitiva, nella sua determinazione a coprire grandi spazi, la “Russia”, per “Arrivare là”, in una dimensione insondata, nel luogo dove è possibile riconoscere la sostanza profonda e divina del proprio essere.

Arrivare là”, andare oltre la presunta normalità di un mondo che si trascina nella banalità del quotidiano esistere, “Qui c’è un tal fango”: è un vissuto collettivo così viscido e melmoso da far precipitare ogni misero individuo nella vertigine dell’ “Assenza!”. Sylvia Plath denuncia la vuotaggine di una vita che schianta e avvolge i pensieri e, nella sua invettiva poetica, lancia il suo grido contro l’oscurità che trova la sua forza nelle “enormi interiora di gorilla” che si raccolgono e si contraggono, quasi le avvolgono i piedi, impedendole di agire. La sua capacità di movimento è contrastata da queste “enormi interiora di gorilla” che, in definitiva, sono le labirintiche e sinuose strade di un’arcana esistenza terrena.

E di fronte a tanta disarmonia, non può che generarsi una spaventosa angoscia che attanaglia i pensieri nell’orrido putridume di “terribili cervelli”: sono sofferti pensieri e tormenti emotivi che echeggiano e rimbalzano continuamente, quasi fossero dei boomerang, parole spettrali di “musi neri rotanti”. Eppure, nonostante la dilagante angoscia, Sylvia Plath vuole “Arrivare là”, e si impegna per rimuovere tutte le incrostazioni che, come pesante zavorra, fanno precipitare l’essere nel buio dell’istinto. Ed è così che si spinge oltre ogni ostacolo e, quantunque venga ostacolata dagli artifici del mondo, procede lentamente, distesa e quasi priva di forze “su una paglia di carri bestiame”. “Arrivare là”  è il suo desiderio estremo, il suo ultimo respiro di vita. E la vediamo trascinarsi, quasi barcollando, come la vittima che, non avendo più niente da perdere, dice tutto ciò che sente “per corrompere”, per denunciare le avversità di un’esistenza perfida e maligna.

Un’esistenza di forme artefatte, simulacri di perfezione che come “ruote avanzano”, simulacri e maschere “fissate ai loro archi come iddii”, convenzioni sociali che trattengono e sopraffanno “inesorabilmente” la povera vittima, l’essere disaiutato e solo, stretto inevitabilmente nella morsa del “guinzaglio argentino del volere”. Dunque, anche la volontà, nella forma del libero arbitrio, è come sospesa dalla presunzione, dalla “superbia” di una realtà umana che si è costruita degli idoli, perché gli “dei conoscono solo destinazioni”, le fedi ordinate dalla storia per fuggire l’ignoto. Sylvia Plath non cerca chimere, e vuole “Arrivare là”, laddove la verità splende nella sua misteriosa e autentica bellezza. “Arrivare là”  nell’Altrove libero e primigenio, nello spazio senza tempo così da lanciare il suo urlo straziante, il suo grido di dolore che è sofferta e amara angoscia.

Snodo fondamentale di “Arrivare là” è quel dire “Io sono una lettera infilata in questa buca – volo a un nome a due occhi”. È lei che possiede gli “occhi”, la facoltà di vedere oltre le apparenze, è lei che si riscatta in questi versi epifanici, come per mostrare la sua “lettera”, il suo testamento. E proprio perché “infilata in questa buca”, bocca di un “cannone”, le sue parole profetiche rumoreggiano e svelano i lati sinistri di un’esistenza che si consuma nell’antro oscuro di una “stazione” dove si ammassano creature ferite e deluse, persone che vorrebbero, anche inconsapevolmente, “Arrivare là”, fuggire dalla morsa delle “infermiere sotto un’acqua di rubinetto”. E, mentre le “infermiere” si prestano a curare il corpo, altre donne, coperte da “veli di convento”, cercano di avvolgere lo spirito di “uomini che il sangue ancora pompa in avanti”. Sono uomini che vorrebbero “Arrivare là”, vedere oltre, uomini caduti nel viaggio di conoscenza, ma di loro ora restano “gambe, braccia ammucchiate fuori della tenda di lamenti interminabili”. Sono uomini feriti nei pensieri che gridano e lamentano tutto il loro strazio, in questo sofisticato “ospedale di bambole”: “bambole”, manufatti e simboli sociali, maschere edificate per creare un mondo virtuale di grandiose mistificazioni della realtà.

Ma quale ruolo assumono “gli uomini, quel che resta degli uomini” in questo teatrino del mondo che aggiusta i suoi fantocci, le marionette a cui ogni tanto si spezzano i fili e vengono riparate nell’ “ospedale di bambole”. Cosa rimane, dunque, degli uomini “pompati avanti da questi stantuffi, questo sangue dentro il prossimo miglio, la prossima ora – dinastia di frecce troncate!”. Una ressa di uomini viene spinta e raggruppata come un gregge, la loro vita è già disegnata e scritta per il tempo che rimane: quel che resta è solo una “dinastia di frecce troncate”, una generazione intera che vorrebbe ma non può “Arrivare là”.

Sylvia Plath riporta il discorso su se stessa, ritorna alla sua personale e cosciente ricerca per “Arrivare là”, e si chiede ancora “Quanto è distante?”. Ha già camminato parecchio, tanto che può dire “C’è fango sui miei piedi, spesso, rosso e sguisciante”. Ed è lo stesso fango di cui si servì Dio per creare “Adamo”, in un mondo che costringe Sylvia Plath all’ “agonia”. Ritorna subito la metafora del viaggio, con maggiore concretezza, “il treno sta sbuffando. Sbuffando e sfiatando, i denti pronti a arrotare come quelli di un diavolo”. Si tratta della brevità della vita, strappata e lacerata da “un diavolo”, che altro non è se non il tempo dell’esperienza.

Arrivare là” è ormai questione di poco, “manca un minuto alla fine un minuto, un cadere di goccia”. Sylvia Plath non può fare a meno di chiedersi come mai se “È così piccolo il luogo dove sto andando, e perché questi ostacoli”, perché “Arrivare là” comporta tante fatiche. E la risposta è tutta compresa nel verso “il corpo di questa donna, gonne incarbonite e maschera di morte”: è il suo stesso corpo che, inquadrato come io sociale, si rivela un ostacolo, forma di un tempo che non è altro che una “maschera di morte”.

Ma è giunto il momento di gridare tutto il proprio dolore, di far esplodere tutte le finzioni per ripulirsi del fango della vita e risorgere. Sylvia Plath è pronta e può dire “Seppellirò i feriti come crisalidi, canterò e seppellirò i morti”. Si tratta dei suoi pensieri, delle sue emozioni, delle sue aspettative tradite dal non tempo della vita. Le maschere che ha dovuto portare, obbligata dal contesto sociale, sono morte identità, e “sgusciando da questa pelle di vecchie bende, noie, vecchie facce” Sylvia Plath può “Arrivare là”, alla comprensione epifanica del tutto – nulla, e può giungervi “pura come un’infante”.

Dipartimento di Lettere e Filosofia, prof. Ciro Sorrentino

 Materiale protetto da Copyright (c) – Tutti i diritti riservati. Vietata la copia anche parziale.

https://plathsylvia.altervista.org/

https://www.letteratour.it/analisi/A02_plathSylvia_ariel.asp

https://plathsylviaariel.altervista.org/

https://sylviaplath.altervista.org/

https://eburnea.altervista.org/

https://sylviaplathariel.altervista.org/