Ariel // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

Ariel // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

Stasi nel buio.
 Poi l’insostanziale azzurro
 versarsi di vette e distanze.

 Leonessa di Dio,
 come in una ci evolviamo,
 perno di calcagni e ginocchi! – La ruga

 s’incide e si cancella, sorella
 al bruno arco
 del collo che non posso serrare,

 bacche
 occhiodimoro oscuri,
 lanciano ami –

boccate di un nero dolce sangue,
 ombre.
 Qualcos’altro

 mi tira su nell’aria –
Cosce, capelli;
 dai miei calcagni si squama.

 Bianca
 godiva, mi spoglio –
Morte mani, morte stringenze.

 E adesso io
 spumeggio al grano, scintillio di mari.
 Il pianto del bambino

 nel muro si liquefà.
 E io sono la freccia,
 la rugiada che vola suicida,

 in una con la spinta
 dentro il rosso
 occhio, cratere del mattino.

27 ottobre 1962, Sylvia Plath

(traduzione di Giovanni Giudici)

Ariel // Sylvia Plath in “La scoperta del doppio e il viaggio di Pierrot” – prof. Ciro Sorrentino

La genialità di Sylvia Plath, come per ogni vero artista, sorge dalle sue pulsioni intime, da un susseguirsi, a volte disordinato, di suggestioni che presto sollecitano il suo esercizio mentale, – al riguardo, si legga “Ariel”, raccolta delle sue poesie più rappresentative. In “Ariel” Sylvia Plath cerca la consistenza di una forma, la stessa che progressivamente va delineandosi nell’uso della parola, mezzo e strumento di una visione del mondo e della vita. In riferimento a questa tensione creativa di Sylvia Plath, con la formula “Officina Segreta”, vogliamo identificare un ambito letterario nel quale collocare ricerche e studi necessari per individuare le spinte segrete e personali che muovono un autore. Siamo convinti che, prima ancora di elaborare una biografia, un articolo o un saggio, sia indispensabile addentrarsi e confrontarsi con un mondo “sotterraneo”, celato nei simboli che le parole recano. È nei segni linguistici che vanno individuate le spinte emotive e razionali, quel flusso magmatico che spinge a scrivere e plasmare un testo narrativo, poetico o teatrale, e questo assunto è tanto più vero per Sylvia Plath. Tali “segni” vanno compresi ed assimilati, “metabolizzati”, da chi intende fornire una misura equilibrata dell’essenza poetica e della valenza comunicativa di un’opera. Ed è questa un’operazione complessa, perché occorre liberarsi da ogni condizionamento esterno, provare ad identificarsi nella psicologia dell’artista, immaginare le sue reazioni comportamentali rispetto alle difficoltà o alle gioie della vita. La “riflessione empatica”, in relazione ad una vita affettiva e morale non nostra, diventa la “chiave” per assumere in sé modi di essere e di pensare di un autore. Per riuscire nell’intento, occorre chiedersi continuamente perché sia stata scelta quella parola piuttosto che un’altra, per quale ragione la parola sia assuefatta o svincolata dal contesto storico. “Osservare” situazioni onde “interpretarle”, utilizzando modi di pensare e di essere “altrui”, risulta la via più adatta a rappresentare le inquietudini e le gioie subite o vissute, prima e durante la stesura di un’opera. Ma la “proiezione” e l’ “identificazione” vanno modulate su più opere per cercare parallelismi, sincronie o diacronie, convergenze ed ossimori, insomma quella serie di connotazioni caratteriali che definiscono e rivelano l’io segreto, il suo porsi di fronte alla realtà e alla vita. La contestualizzazione dei risultati, se contribuisce a definire un paradigma e un modus operandi, permette inoltre di tracciare un profilo iniziale dell’artista, scoprendo le motivazioni che lo spingono a trattare alcuni temi, piuttosto che altri. È in questa chiave critica che intendiamo avviare un primo approccio al mondo poetico di Sylvia Plath, al suo viaggio verso il “Misterioso Oltre”, profondamente indagato nelle liriche della raccolta “Ariel”. Proprio nella sua frenetica ricerca del vero, Sylvia Plath cercò la strada per cogliere la purezza e la perfezione della parola, quella parola che traduce il pensiero e tutto il mondo intimo e misterioso del quale l’essere umano è fatto. E tra delusioni e successi, tra la gioia e la sofferenza, tra l’esultanza e l’avvilimento Sylvia Plath provò a rialzarsi cercando un appiglio, qualcuno che le tendesse una mano per comprendere le ragioni dell’esistenza. Ma ogni richiesta rimase insoddisfatta e, schiantata dal peso dell’incomunicabilità, preferì “escludersi” alla vita, almeno a quella in questa forma conosciuta. Si abbandonò alle correnti di un universo “anomalo”, e utilizzò di questa vita uno degli elementi costitutivi (il gas), quello che, nella sua vaporosa liquidità, dà la morte alle creature viventi. Eppure il suo pensiero, l’anima che vide se stessa e che decise di dipartire per il “Misterioso Oltre”, ancora vive e se ne avvertono gli echi. In ogni poesia che si rivolge ad una vita così futile e piena di ombre, si sente la parola viva e intensa della poetessa statunitense, di Sylvia Plath. Immergersi nella lettura dei testi di “Ariel”, “sentire” la voce di Sylvia Plath, significa percepirne la passione e la fiamma che alimentarono la sua vita tanto sfuggente, perché diversa e pura, da una realtà mistificata e popolata da stupide marionette, ammantate d’insolenza e dileggio. In Sylvia Plath c’è un’amara coscienza dell’esistenza che rende partecipi di una dimensione cosmica ed estranea, non solo alla terra e al mondo, ma all’universo stesso. In “Ariel”, di fronte all’ “imperscrutabile immensità”, Sylvia Plath spesso immagina l’istante del trapasso e della liberazione, l’attimo in cui potrà liberarsi dal peso di una natura limitata (l’umano corpo), che non riesce a contenere il suo essere. Per chi legge con “partecipazione empatica” tutte le poesie di “Ariel”, sembra quasi di sentire l’insoddisfazione profonda, il senso di amarezza di Sylvia Plath e l’angoscia dell’ “insolvenza” che percorre una mente  che vuole espandersi senza fine. Il suo gesto estremo, vissuto in un silenzio attonito, la immortala nell’atto di sottrarsi a una dimensione spazio – tempo che lei percepisce come “nonvita” e chiusura all’ “Oltre”. Piuttosto che vittima, in ogni testo della raccolta “Ariel”, Sylvia Plath è il giudice che emana il “verdetto”, il “proclama”, la “sentenza” che decreta la sua integra “purezza” d’angelo, l’ “innocenza” di un’ infanzia felice che dalla storia è stata “tradita”, “sconvolta”, “annegata” nel convulso sovrapporsi di un’ondata impossibile di eventi e circostanze inspiegabili. Sylvia Plath si sottrae all’insolvenza ad essere, vuole determinarsi, individuarsi oltre la realtà che non fornisce risposte, e che agghiaccia e atterra nel suo “antro nero di forze centripete”, che “spingono”, “urtano”, “travolgono” senza un ragionevole “perché”. Ed è così che Sylvia Plath, dal “transitorio dissolversi”, dal momentaneo sospendersi, dallo spegnersi come fuoco di quest’universo, germoglia come nuovo fiore.  Le sue ceneri diventano nutrimento di nuova linfa, generano una terra vergine, uno spazio “dionisiaco” nel quale e dal quale la sua anima “risorge” libera “dalle ombre che la accerchiano sul viale degli spettri”. Sylvia Plath, la “Lady Lazarus”, risorge e sembra sorridere di ogni parvenza, è la “donna/angelo”, che ha compiuto il “salto” e tutto conosce: “saluta” i fantasmi della mente, “esorcizza” la sua precedente vita, “razionalizza”, nella prospettiva dell’ “ignoto mistero”, ogni memoria. E per rendersi testimone, per svegliare le “coscienze dormienti”, sole e smarrite nelle zone recondite e sperdute degli “universi oscuri”, risorge recando la sua luce, anzi la “luce” di “Ariel, leonessa di Dio”, che in lei, di lei e per lei si è accesa. Sylvia Plath, prima della sua separazione dal mondo, ha lasciato “indizi” perché qualcuno li raccogliesse, per “pubblicizzarne” la sua verità, il senso dell’esistere, il “vano ravvolgersi delle trame degli uomini”, la stoltezza di tutti quelli che si arroccano in una “cupola persa al tramonto del mondo elettrizzato”. Sylvia Plath, la “Lady Lazarus” sarà in eterno la “donna/angelo, l’eroina” che dopo aver “oltrepassato ogni dimensione”, e averne visto la sostanza segreta e imprendibile, ha fatto ritorno per “invitare” gli esseri umani, “a vivere” questa vita “senza compiere quello che è stato il suo gesto estremo”. Vivere…, dunque, “vivere per vivere” e non chiedersi il perché, vivere “sentendo la vita”, “assaporarne” gioie e dolori, correre in “Ariel”, nella volontà di “determinarsi” e “liberarsi” dalle fittizie congetture.

L’IMAGO SALVIFICA: L ARABA FENICE” // Sylvia Plath, in “Lady Lazarus[…] non ho che trent’anni. E come il gatto ho nove vite da morire. […]”. Un distico che esplicita subito l’idea di ricondurre l’ipostasi del discorso in un tempo preciso e definito, un tempo che detta la storia della vita e degli eventi che formano o deformano i sentimenti. Sylvia Plath sembra racchiudere l’esistenza nel cerchio “ciclometrico” dei novanta numeri, in una geometria della realtà che si costituisce come primordiale “abicì” dell’armonia. È in questo “alfabeto” della perfezione, che riconosciamo il fondo immacolato della poetessa, quella sua tensione a dire la condizione morale e psicologica che la colloca in una situazione senza via d’uscita. La “donna/angelo, l’eroina”, Sylvia Plath si ritrova come schiantata da una realtà che fa franare, sotto i suoi passi, la terra e ogni possibilità di raggiungere, in fondo alla via, l’ “Assoluto”. A tal proposito, nella nostra ricostruzione “empatica”, nel nostro proiettarci nelle zone segrete dell’universo poetico di Sylvia Plath, riteniamo opportuno fornire l’immagine che si viene materializzando dopo una “lettura empatica” dei segni e dei simboli nascosti nei versi di Lady Lazarus[…] non ho che trent’anni. E come il gatto ho nove vite da morire. […]. // (Transfert Empatico) Ogni volta muoio e rinasco nelle vite di un gatto, e sempre la mia anima si apre al disco delle stagioni. / Così sorrido a nuovi giorni, e mi rigiro e brucio, ardo come legna secca che scoppietta nel camino. / Impera un gelo d’inverno e come un ciottolo sogna la primavera, così attendo fresca rugiada. / Delirio d’insano tempo – conchiglie svuotate sulla sabbia che mai sentirà il passo dell’eterno. / Prima del nero l’aria era colma di luce, ora è tutto confuso, un remoto alfabeto tagliente (Ciro Sorrentino). Ma, ritornando ai versi di Sylvia Plath, si intuisce subito che la situazione nella quale si trova è un retaggio che si ripete puntualmente, un’esperienza così dolorosa che le trapassa il cuore e la mente, schiantandola e consumando le sue energie fino all’annullamento del sé. Emblematico il paradigma che la apparenta, almeno nella convinzione generale, al gatto e alle sue nove vite, quelle che le ridanno lo slancio di rialzarsi e nuovamente riprovare a vivere, quasi eroina di un’antica fiaba. Come l’ Araba fenice si rialza e va incontro alla vita. Maestosa creatura al femminile, da immemore tempo sente echeggiare armonie d’infinito, suoni che si rincorrono e le forniscono la scienza e la conoscenza del “Tutto-Nulla”. Ogni volta che il suo io si ritrova perso e sfiduciato, nella monotonia dei giorni, nella ripetitività dei gesti che la logorano dal di dentro: Sylvia Plath si “rigira” come un ceppo nel camino per ravvivare la sua fiamma, renderla più marcata e scricchiolante, calda…, una calda fiamma d’amore perché possa innalzarsi forte e potente all’orizzonte infinito. Ed è estremamente significativo immaginare questa fiamma che perennemente si leva da un cuore che pulsa e freme, e che si protende verso un’indispensabile “Altrove”. In questo luogo poetico, nell’insistita e drammatica ricerca dell’ “Oltre”, avviene la deificazione di Sylvia Plath, il suo nascere e morire la rende figura miracolistica del sacrificio e dell’estrema sacralità. Vita/Morte/Rinascita” // La “distanza”, quella sottesa distanza che sempre è velata nelle poesie di Sylvia Plath, si costituisce e rappresenta come impossibilità di rappresentarsi per quello che si è, al punto che per quanti sforzi si compiano, mai e poi mai sarà concesso di aderire alla pienezza della vita. Questo a nostro intendimento il significato sotteso alle nove vite del gatto: una volontà e un bisogno di risorgere carichi di un’amarezza che assume i toni del tormento e del dramma irresolubile. Sylvia Plath ha velato le circostanze fortuite e le situazioni “pregiudiziali” che impediscono l’esplosione di una vita pienamente serena, rendendo ancora una volta irraggiungibile la fruizione di un tempo assoluto. Ma a ben guardare, questo impedimento è sigillo e veto di un tempo storico che incalza e imperversa sul corpo, e che affonda il suo artiglio prepotente e curioso per provare a sbriciolare l’anima. Dunque, fissando la nostra attenzione su tale evento, possiamo dire che per Sylvia Plath il “tempo storico” si delinea e rappresenta come l’artefice e l’artifizio “cosmogonico” per fissare la partenza e l’arrivo della vita degli uomini. Ciò che colpisce è la crudele ferocia di un “meccanismo” assurdo, “surreale”, “misterioso” che irride la vita – è un tempo che dona e toglie la vita, un “tempomorte” che attende nell’oscurità per prendere ciò che prima ha donato. Questo “tempomorte”, nell’atto di creazione/dissoluzione delle umane forme, assume caratteristiche particolari: imperversa sul creato e sulle fragili creature che lo popolano; come macchina “fagocitante” sperpera e infanga la memoria e il ricordo di chi, come Sylvia Plath, persegue il fine della scienza del mondo, la conoscenza del grande mistero. Eppure, lungi da ogni pessimistica conclusione, quel “nascere e morire” attribuisce a Sylvia Plath un compito “messianico”: spargere semi di verità, lasciare indizi del suo passaggio, affinché si persegua la via della poesia, di un “lirismo critico” adatto a veicolare messaggi d’infinita conoscenza e libero riscatto.

Dipartimento di Lettere e Filosofia, prof. Ciro Sorrentino

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